La festa della semplicità e di un Bambino
Caro direttore,
Papa Francesco, nel suo messaggio per la 56a Giornata Mondiale della Pace, invita tutti a lasciare che «Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà». Di fronte al male, alla guerra e alle tante contraddizioni del mondo di oggi, il Santo Padre ci ricorda che «anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici […], siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente».
Il Natale è sempre stato per tutti, anche per chi non crede, un momento carico di gioia e di speranza. Una speranza che oggi sembra appartenere ormai a un passato lontano nella memoria. Ne rimangono le tracce in un sentimento buono, ma disponibile solo per chi se lo può permettere, finché le cose vanno bene. Ma negli ultimi anni le cose non sono andate troppo bene. Scriveva il sociologo Sergio Belardinelli qualche giorno fa a proposito del Natale: «Abbiamo essiccato soprattutto la speranza che qualcosa di veramente nuovo possa fare irruzione nella nostra vita sottraendola al suo torpore». È un’aridità che a nessuno è risparmiata, e quando la vita urge, quando iniziano a bombardare la tua terra o quando perdi ciò che hai di più caro, diventa impossibile restare indifferenti. Qualche settimana fa Antonio Polito (Sette-Corriere della Sera, 11/11/22) ha raccontato del doloroso funerale di Francesco, un ragazzo figlio di vostri colleghi del Corriere, e della domanda di senso che tale tragedia ha inevitabilmente generato. È la stessa domanda che suscitano le immagini che ci arrivano dalla martoriata Ucraina o dai tanti scenari di conflitto presenti nel mondo. Polito aggiunge tuttavia che l’omelia del sacerdote, intrisa di una viva speranza cristiana, ha «alleviato il peso dal nostro cuore, ha asciugato le lacrime dai nostri occhi, credenti e non credenti». Per poi rammaricarsi: «Che guaio che il messaggio cristiano si sia così indebolito nella nostra Italia». Eppure, a ben vedere qual è il messaggio cristiano? Su cosa si poggia questa speranza? Un bambino. È quasi folle a pensarci. La speranza del mondo si regge sulla cosa più fragile e indifesa che possa venire in mente. Paradossalmente, è usando della fragilità di questo bambino che Dio si immischia con la vicenda degli uomini: «Un Dio, amico mio, Dio si è scomodato, Dio si è sacrificato per me. Ecco qui il cristianesimo», scriveva Péguy. L’origine e il senso di ogni cosa, quel Mistero al quale il cuore si rivolge in cerca di risposta alle sue esigenze di verità, giustizia, felicità e amore, si è fatto bambino, è venuto tra noi. Non c’è un annuncio più atteso di questo nella storia di tutta l’umanità. Nessuno, se aperto alla possibilità che esista una risposta a quelle esigenze, può evitare di fare i conti con un tale avvenimento.
Perché Dio, come dice Péguy, si è scomodato? A ben pensarci, non mi viene altra risposta se non questa: per amore. Per una infinita tenerezza verso ogni uomo e ogni donna, verso di te e verso di me. Diceva don Giussani parlando della gioia del Natale: «È amore puro, altruismo puro […]. Il Natale è la festa del bambino – in senso evangelico – cioè della semplicità. […] Questa semplicità non è che il trasparire di quel che siamo al fondo: attesa di un altro». Il Natale ci insegna una semplicità che può essere di tutti, perché rivela la possibilità di un amore puro, divino, dentro la vita quotidiana.
Questo bambino rende nuova ogni cosa e a coloro che lo riconoscono dona una modalità di presenza originale che incontra tutti: «Siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione», dice il Papa nel messaggio già citato. Fatti oggetto dell’amore di Dio che viene tra noi, tutto cambia. Nasce un’amicizia che non rinnega una virgola dell’umanità di ciascuno, che non risolve il male del mondo, ma è capace di un cammino di bene perché certa (per quel fatto accaduto!) di un destino buono. Un’amicizia certa, e al tempo stesso umile. La vera umiltà cristiana consiste infatti nel lasciarsi provocare dalle domande del mondo per condividerle con “responsabilità” e “compassione”. È solo per questa ragione che il cristiano è attratto dal grido di senso che sorge davanti al dolore, alla malattia, al limite; o all’esigenza di voler bene ed essere voluti bene in un contesto in cui il senso di queste parole sembra ormai vaporizzato. Sono tanti gli interrogativi a cui l’uomo di oggi, pur con tutto il suo sapere tecnologico, fatica a trovare risposta, finendo per rifugiarsi in un diritto all’autodeterminazione che trascina la società verso un individualismo sempre più sterile (si pensi alla crisi della natalità). Del resto, come spiegava Romano Guardini, «abbandonato Dio, l’uomo si è fatto incomprensibile a se stesso».
Il Natale, invece, è quell’Avvenimento che tutti attendono: liberarsi dall’autodeterminazione per scoprirsi determinati, cioè affermati, amati, da Colui che cerchiamo fin dal primo vagito che emettiamo appena usciti dal ventre di nostra madre. «Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?», recita un bellissimo verso del poeta Pär Lagerkvist. Quel “Tu” si è rivelato. Qui può davvero consistere il seme di una vera pace. Come consigliava don Giussani ai suoi ragazzi: «Dobbiamo ammettere che è una cosa senza paragone che il cristianesimo dica che Dio è diventato uomo, e permane in mezzo a questa compagnia di amici». Sì, è senza paragone, eppure possibile.