Nicolò Zanon (Ansa)

Diritti: che partita si gioca?

Identità della persona e società sono investite da grandi trasformazioni, tra sviluppo scientifico e tecnologico. Ma qual è il compito della legge in questa rivoluzione? Un dialogo con il vicepresidente della Corte Costituzionale, Nicolò Zanon
Stefano Filippi

La fecondazione artificiale, la maternità surrogata, il diritto delle coppie dello stesso sesso di avere figli propri o di adottarli: la scienza e la tecnologia stanno cambiando l’idea di famiglia naturale e quindi le fondamenta della società. Sono trasformazioni profonde che investono l’identità della persona e il contesto sociale. In discussione è la nozione stessa di diritto, chiamato a misurarsi con queste novità prive di antecedenti. Si può ancora parlare di un “diritto naturale”? La legge deve adeguarsi a questa rivoluzione che investe le basi sociali disciplinandola, o deve ribadire principi naturali non negoziabili? Nasce da qui un dialogo con Nicolò Zanon, professore di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano e vicepresidente della Corte costituzionale.

Su temi come la fecondazione, la maternità surrogata, le famiglie omogenitoriali sembra in atto un tentativo di modificare le norme non per regolare nuovi comportamenti già diffusi, ma di anticiparli se non di favorirli. È così?
Il fenomeno è in parte diverso. Quando si ragiona di ciò che la Costituzione afferma sui temi dei diritti civili, si dice che essa già proteggerebbe questi nuovi diritti. Poiché però, si aggiunge, il Parlamento non interviene per dare attuazione con legge a tali (pretesi) diritti, allora si sostiene che debbano intervenire i giudici. La realtà è che, molto spesso, si vuol far dire alla Costituzione non già quel che essa davvero dice, ma quel che si vorrebbe dicesse. Esistono, insomma, desideri che si vorrebbero trasformare in diritti. E poiché, si osserva, il legislatore non esaudisce questi desideri, si richiede che queste tutele siano introdotte a colpi di sentenze. Io direi, invece, che coloro che sostengono questa tesi dovrebbero preoccuparsi di eleggere in Parlamento rappresentanti disposti ad accogliere le loro visioni e a votare le leggi pertinenti. Se ciò ora non accade è semplicemente perché manca in Parlamento il necessario consenso. Si chiama democrazia.

Perché i desideri non sono automaticamente diritti?
Intanto perché i diritti tutelabili per via giudiziaria sono quelli scritti in Costituzione e nelle leggi. Le aspirazioni o i desideri sono un’altra cosa. Comprendo bene, ad esempio, che il desiderio di essere genitore sia potentissimo e naturale. Ma può convertirsi, sempre e comunque, in una pretesa azionabile di fronte a un Tribunale, sostenendo, magari, che essa è ricavabile dalla Costituzione, anche quando le condizioni di partenza naturali, diciamo così, la renderebbero non possibile? Non ne sono per nulla sicuro. Inoltre, il fatto che esistano tecniche o pratiche che, superando i limiti “naturali”, consentano di realizzare quella aspirazione non ci può automaticamente portare a dire che, allora, quella aspirazione merita di essere considerata un diritto. Questo non solo per strette ragioni giuridiche, ma anche perché penso esistano limiti alle possibilità di utilizzare disinvoltamente tecniche o pratiche che ormai permettono di dare soddisfazione a ogni aspirazione individuale. Se con la pratica dell’utero in affitto una coppia compra all’estero un bambino, ha automaticamente il diritto di vedersi riconosciuta in Italia la responsabilità genitoriale, invocando addirittura la Costituzione?

C’è effettivamente tale tutela nella Carta?
No, e tuttavia si tende a dare della Costituzione una interpretazione che va in quelle direzioni. È un grave errore, a mio modo di vedere. La Costituzione non è un organismo vivente in evoluzione: come già dicevo, essa afferma quello che c’è scritto, non quello che ci piacerebbe fosse scritto. E se la si interpreta per ottenere quello che ci piacerebbe (o piacerebbe ad alcuni), se ne tradisce il senso profondo. Una Costituzione rigida come la nostra, in realtà, è pensata per resistere ai cambiamenti. Oltretutto, l’idea della “Costituzione vivente”, che segue i cambiamenti e si adatta a essi, presuppone che tali cambiamenti siano sempre migliorativi della realtà, ma non è affatto detto che sia così.

La Costituzione è immodificabile?
Per nulla. Ma esiste una procedura specifica per cambiarla. Se non si è soddisfatti di quello che vi è scritto, o si pensa che ciò non sia sufficiente, la si cambi seguendo le procedure previste. Intanto, si eleggano rappresentanti politici che vogliono quei cambiamenti e li si inviti a seguire le procedure di revisione costituzionale. Ma non si pretenda di farlo chiamando in campo i giudici di vario livello, attraverso sentenze che interpretano la Costituzione in modo del tutto creativo, in nome di diritti pretesamente protetti dalla Carta.

Su suicidio assistito, fecondazione eterologa e maternità surrogata la Corte costituzionale ha invitato il Parlamento a legiferare. È un invito a tutelare questi fenomeni?
Mi lasci essere riservato nel commentare le nostre sentenze in argomento. Noi abbiamo spesso invitato il legislatore a intervenire, per introdurre nuove regole, non ritenendo di poterle creare direttamente noi: non è nostro compito, in una democrazia rappresentativa.

Per l’articolo 29 della Costituzione la famiglia è una «società naturale fondata sul matrimonio». È una definizione ancora valida?
È il testo costituzionale che abbiamo. Se non piace o lo si giudica insufficiente lo si cambi... Nel 2010, la Corte Costituzionale, posta di fronte alla domanda se l’articolo 29 riconoscesse anche una unione tra persone dello stesso sesso, rispose di no. L’unione omosessuale non è vietata dalla Costituzione, ma non è garantita dall’articolo 29, semmai trova cittadinanza sotto l’articolo 2, dove si parla delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dei singoli. Ma la Corte fu netta nel dire che, secondo l’intenzione dei costituenti, l’articolo 29 ragiona del matrimonio fra persone di sesso diverso. Il legislatore, successivamente, ha rispettato questa impostazione, e non ha equiparato del tutto le unioni civili al matrimonio.

Si ragiona molto della situazione dei bambini nati con la maternità surrogata.
È evidente che questi bambini ci sono e vanno tutelati, senza che le eventuali responsabilità degli adulti ricadano su di loro. La nostra Corte ha detto che questa tutela può avvenire, per esempio, attraverso il ricorso all’istituto della adozione in casi particolari, che può essere anche resa più veloce e più completa nelle sue forme di garanzia, anche patrimoniali. In realtà, purtroppo, non raramente si mette in campo la giusta necessità di dare tutela alla condizione di quei bambini per avere altro: ottenere, a favore degli adulti, il riconoscimento di un ruolo genitoriale che non corrisponde né alla natura, né alla realtà.

Tra procreazione artificiale, fecondazione artificiale, intelligenza artificiale, si può parlare ancora di diritto naturale?
È un tema molto ampio e complesso. Io penso, innanzitutto, che esista un limite alla possibilità di allontanare, divaricare, ciò che è “naturale” da ciò che è reso possibile dalle tecnologie, in continua evoluzione. Bisogna chiedersi se questo “allontanamento dalla natura” non sia, in effetti, un grave impoverimento dell’esperienza umana. Facciamo proprio l’esempio della maternità surrogata: quali e quanti legami si creano tra una madre naturale e il figlio che ella ha tenuto nel proprio grembo per nove mesi e poi partorito? Quali sono i legami genetici, psicologici, esperienziali, naturali che si stabiliscono tra questi due esseri? E quali possono essere, allora, per la madre e il bambino, le conseguenze del fatto che questo bambino venga poi “donato” (anche nella benevola ipotesi di una maternità surrogata solidaristica, senza scambio di denaro)? Queste forme asettiche di sostituzione portano a una perdita straordinaria della ricchezza della nostra vita, e a un decadimento delle relazioni personali.

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A che cosa si riferisce?
La Corte costituzionale, a proposito della maternità surrogata, ha affermato che essa «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Questo va ricordato. Inoltre, in generale, io penso che essere titolari di diritti comporta doveri e responsabilità: i diritti devono sempre accompagnarsi a forme di responsabilità nei confronti degli altri, a forti legami relazionali con le comunità cui si appartiene. Invece, questi pretesi “nuovi diritti” di cui tanto si parla appaiono spesso slegati da responsabilità e relazioni. Disegnano un mondo individualista in cui l’autodeterminazione esaurisce tutto. È un mondo anche un poco infantile e semplificato: quando l’individuo si accorge che esistono ostacoli alla realizzazione delle sue pretese, pretende di ottenere il risultato ricorrendo a un Tribunale. E mi lasci dire che talvolta queste tendenze sono, purtroppo, favorite, o meglio non del tutto contrastate, dalla giurisprudenza, non solo nazionale.