Bologna. Un sussurro in un mondo ferito

Un titolo provocante, per l'edizione numero 21 del Campus by Night: "In che cosa posso sperare?". Tre giorni proposti a tutta la città dagli universitari. Spettacoli, sport, mostre, incontri... E un imprevisto
Emanuele Zuccarello

«You see all I need’s a whisper in a world that only shouts» (Vedi, tutto ciò di cui ho bisogno è un sussurro in un mondo che grida soltanto). Queste parole riecheggiano sui sampietrini di piazza San Domenico a Bologna la sera del 10 maggio e suonano come un invito a guardarsi attorno e fare silenzio per qualche secondo. È accaduto proprio questo al termine di una delle tre serate del Campus by Night, evento culturale organizzato dai ragazzi del Clu attraverso l’associazione Student Office, con cui sono presenti all’interno dell’università del capoluogo emiliano, e offerto all’intera comunità cittadina. Il verso proviene da Whispers, brano di Passenger che dà il titolo allo spettacolo presentato da un gruppo di studenti della Statale di Milano sull’esperienza in università nella seconda serata del Campus e riassume quanto accaduto in quei giorni, dal 9 all'11 maggio.



“In che cosa posso sperare?” è il titolo scelto, domanda urgente in un presente lacerato dalla sofferenza, che i ragazzi hanno deciso di porre a tutti. Attraverso tre incontri: sulla speranza con Antonio Masuri di Avsi; su Europa e pace con Mario Mauro e Hussam Abu Sini; sulla convenienza del dialogo tra Agnese Moro e Alessandra Vitez, e infine sulla sanità con Chiara Locatelli e Silvio Di Tella. E poi con le mostre per conoscere le figure di Pasolini, Giobbe e i personaggi de Il Signore degli Anelli. Il tentativo ha avuto un successo decisamente maggiore di quanto sarebbe stato possibile prevedere, soprattutto a fronte di un “ingombrante” imprevisto che a sole 72 ore dall’inaugurazione aveva messo a repentaglio i mesi di lavoro precedenti: Piazza Scaravilli, cuore della zona universitaria che ha sempre ospitato l’evento, era occupata dalle tende dei sostenitori di quella che è stata battezzata “intifada studentesca”. Bisognava trovare una soluzione alternativa che non costituisse un compromesso rispetto all’idea iniziale e fosse ugualmente efficace nel realizzare quanto era stato pensato. La notizia sopraggiunta domenica ha obbligato tutti, anche chi non era coinvolto direttamente nell’organizzazione, a chiedersi: perché vale la pena fare il Campus? Se non dovesse realizzarsi, tutto il nostro sforzo sarebbe inutile? Che valore può avere costruirlo fino alla fine e portare questa domanda ai nostri compagni di corso e all’intera città?

Ciò che è accaduto nelle ore successive e durante l’intera settimana non ha fatto altro che mettere a tacere le preoccupazioni e quanto riportato di seguito è un breve resoconto di intense giornate di inaspettata festa.

L’ultima sera i registratori di cassa della ristorazione autogestita hanno emesso 1500 scontrini, dato eloquente di una risposta inattesa all’invito mosso alla città nei giorni precedenti. Piazza San Domenico, nuova location del Campus, è stata incessantemente piena di visitatori: universitari, famiglie, coppie di anziani, avvocati del tribunale abituali frequentatori della zona e frati domenicani che hanno messo a totale disposizione gli spazi di loro competenza rendendo possibile lo svolgersi del programma.



I tre giorni sono stati segnati dal concretizzarsi dell’istanza principale per cui ogni anno centinaia di volontari si muovono: l’incontro con l’altro, con la sua storia e le sue domande. Il Campus è stato, infatti, terreno fertile di un incessante susseguirsi di occasioni di scoperte, domande, sia per chi lo ha costruito che per chi è stato invitato o passava dalla piazza.
Francesco, studente di Giurisprudenza, insieme ad altri compagni di corso ha invitato un suo professore a cena per poi fare da guida alla mostra su Pasolini. Al termine della serata, il docente lo ha ringraziato per l’apertura e la sincerità con cui tutto il lavoro era stato compiuto, per la creazione di un luogo accogliente e la modalità (da lui definita “rigenerante”) scelta per stare di fronte alle questioni globali. Li ha poi invitati a rivedersi e a restare in contatto. La stessa dinamica è avvenuta con altri professori, con un dipendente del Ministero dell’Istruzione francese incontrato la mattina presto davanti ai pannelli della stessa mostra o i numerosissimi compagni di corso che hanno partecipato alle serate a seguito di una proposta, di un volantino affisso in bacheca o passati di lì per caso.

Nei giorni successivi, diversi compagni hanno contattato l’amico che li aveva invitati per ringraziare o dire di uno stupore e una contentezza. Come è accaduto a Benedetta, che al termine della serata finale ha ricevuto questo messaggio da un ragazzo che lavora in università: «Per la prima volta dopo almeno quattro anni ho apprezzato la vita, è stata una serata bellissima. Sì, è successo qualcosa di relativamente banale che però mi ha fatto tornare a casa con un sorriso che non avevo da troppo tempo… Tutto così assurdo».



Sono stati numerosi anche coloro che, dopo aver seguito la spiegazione di una mostra, sono tornati a visitare le altre, magari invitando gli amici a seguirli e si sono fermati fino a tardi per bere una birra e parlare. Come una compagna di corso di Lorenzo, sconosciuta fino a quel momento, che al termine di un incontro gli ha raccontato: «Sono venuta qui a denti stretti per via delle mie posizioni politiche, ma ciò che è stato detto all’incontro mi ha colpito. Mi interessa vedere un quotidiano cambiato come quello di cui raccontavano i relatori».

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O ancora Elia, incuriosito dalla folla che ingombrava uno spazio normalmente sfruttato come parcheggio, che ha trascorso l’intera giornata con degli sconosciuti per poi domandare: «Tutto questo è a ingresso libero? Come si fa per stare con voi?».



Quei giorni hanno favorito una possibilità di incontro anche con chi era necessario contattare per ragioni burocratiche, di ordine pubblico o di concessione degli spazi: oltre a un rapporto legato alle necessità pratiche è stata più volte resa esplicita una commozione e una gratitudine per la novità che l’evento stava portando alla città.

Le parole che Pietro ha pronunciato dal palco l’ultima sera chiudendo il Campus sono un invito affinché quanto vissuto non muoia con lo smontaggio: «Questi tre giorni hanno mostrato una cosa grande e bella che ha il volto di ciascuno di noi, che non può e non deve finire con il Campus».
Tutto questo è stato forse davvero solo un sussurro nel chiasso di un mondo ferito, ma sicuramente la vita al suo interno è un germoglio di speranza per quanti in questo marasma vogliono stare di fronte alla complessità del reale e alle sfide che vi nascono.