Bergamo Incontra. «Si vive per qualcuno che ci fa vivere»

Tre giorni di incontri, mostre e spettacoli hanno animato la città. Dalla musica alla sfida dell'accoglienza, tanti i temi e le domande emerse su cui ospiti e relatori hanno dialogato insieme
Michela Milesi*

“Nessuno si accontenta semplicemente di vivere. Vogliamo vivere per qualcosa”. Questo il punto di partenza - e il titolo - della 15ª edizione di Bergamo Incontra, tre giorni di incontri, mostre e spettacoli dal 14 al 16 giugno, che ha animato la città lombarda. Un desiderio che raccoglie la domanda di bello, di buono, di vero e di giusto del cuore dell’uomo che può trovare risposta dentro un incontro e un rapporto. «Una persona per vivere ha bisogno di una buona ragione e la migliore ragione è un’altra persona. Vivere per qualcuno come segno di Qualcuno che ci fa vivere», ricordava monsignor Francesco Beschi, vescovo della diocesi orobica, in conclusione della sua omelia alla messa celebrata per l’occasione. O come ha sottolineato il rettore dell’Università di Bergamo, Sergio Cavalieri, all’inaugurazione: «Bergamo Incontra vuole celebrare la bellezza del vivere, del vivere insieme».

Ma chi è questo Qualcuno? Volti, testimonianze, mostre e fatti ne hanno delineato alcuni tratti. Per esempio l’esposizione che ha sorpreso tutti, da monsignor Beschi alla neo sindaca Elena Carnevali intitolata “Cosa ci manca? Bella domanda”. Come il “granello di senape” citato dal Vescovo nell’omelia, una cena tra ragazzi che hanno iniziato a mettere a tema la musica che ascoltano ha generato un albero sotto cui anche le domande di tanti adulti hanno trovato riparo. «Sappiamo che tutti i giovani si rivolgono domande profonde, ma tanti non si sentono di esprimerle, abbiamo voluto invece che questa mostra arrivasse al maggior numero di persone possibili per spiegare che si tratta di domande umane e che ci accomunano tutti», ha spiegato Marco Covili, uno dei giovani ideatori della mostra. Così, i testi delle canzoni sono stati uno strumento efficace per andare al fondo dell’insopprimibile bisogno umano di essere felici, chiedendosi se esista qualcosa, o Qualcuno, in grado di soddisfare questo desiderio. Dai brani di Marracash a Demi Lovato, passando per Battiato e Capossela, la musica spesso grida la necessità di «qualcosa di grande, che resti», che non scivoli via come sabbia, che valga di più «del successo, della stessa vita». Per cui, insomma, valga la pena vivere.



Ma in fondo, le stesse domande emergono anche quando si parla di Intelligenza artificiale, come nell'incontro “L’io, la creatività e l’AI”, o del “bisogno di cura”. «Sapete da dove deriva il termine cura palliativa? Da “pallio”, ovvero dal mantello che san Martino condivide con il bisognoso che incrocia lungo la sua strada. Non è l’ultima spiaggia quando non è possibile la guarigione: è l’accompagnamento al dolore e alla solitudine di una vita che ha valore fino alla fine». Parole che descrivono una delle scoperte folgoranti raccontate dalle guide della mostra “Tu, la luce nella cura”. Dal reparto di neonatologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII alla Casa “Amoris Laetitia”, dall’Rsa Santa Chiara all’Associazione Cure Palliative Odv e altre realtà del territorio bergamasco, il visitatore è stato condotto in un viaggio tra testimonianze scritte e fotografiche di volti in cui il bisogno di cura è stato abbracciato da una compagnia presente.

I contenuti della mostra rievocano l’impotenza e lo smarrimento di chi compie l’atto di accudire, in un impegno quotidiano e costante fatto di tanti piccoli gesti ripetuti. Eppure in quel tunnel di sofferenza si può scorgere una Luce: «Si può imparare così a guardare con speranza le persone accanto a noi che necessitano di cura, tenendole per mano e stando loro vicino, perché se io sono il tuo “tu” e tu sei il mio “tu” possiamo trovare la forza di attraversare quel tunnel», come spiega Emy Serio, una dei curatori.

Ma la cura ha bisogno anche di accoglienza e Luna El Maataoui, di origine marocchina, studentessa di Giurisprudenza all’Università Bicocca di Milano, amica di Veronica Guidotti, cooperante della Fondazione AVSI, ne ha descritto i tratti nel corso dell’incontro “Le dimensioni dell’accoglienza”. Figlia di immigrati di religione musulmana, Luna ha raccontato la sua esperienza di essere parte della “seconda generazione”: «Quando qualcuno dei miei amici parla di accoglienza non ama accostare la parola integrazione, ma le mie radici arabe mi insegnano che l’integrale in matematica significa rendere intero. Integrandomi, mi rendo intera: siamo tutti mancanti e per questo abbiamo bisogno di integrarci, perché non bastiamo a noi». Quindi, ha accostato una parola insolita all’esperienza dell’accoglienza: “silenzio”. «Bisogna vivere l’ascolto della fede e della cultura dell'altro in silenzio: come quando si fa un passo indietro aprendo la porta di casa, per far entrare qualcuno. Se una persona sta in silenzio si accorge dell'altro che vive la sua esperienza mentre gli viene raccontata. Ed è in quel momento che avviene l’integrazione, quando si prende a piene mani l’altro».



Il tema è stato ulteriormente esploso nel panel “L’accoglienza, volto della speranza” da Luca Sommacal, presidente di Famiglie per l’Accoglienza, e da Marina Lorusso, fotografa, tra gli artisti che hanno collaborato alla creazione della mostra “Non come ma quello. Famiglie e artisti nella sorpresa della gratuità”. Marina ha raccontato il suo bisogno di essere accolta nella sua inquietudine. Per esempio, nella decisione di diventare fotografa lasciando il suo impiego da amministrativa. Dopo un viaggio ad Haiti aveva scoperto che la fotografia era un modo per scoprire la bellezza anche dove tutto sembrava dire il contrario. Sommacal, raccontando la sua esperienza di genitore adottivo, ha ricordato che all’origine dell’accoglienza c’è il «riconoscere che tutto è dato, che significa riconoscere un donatore». E dal riconoscere la presenza di un donatore deriva uno sguardo nuovo verso i bambini: «Ogni figlio che arriva è un dono consegnato: ti viene consegnata una vita perché tu possa farla crescere e farla diventare pienamente uomo e donna».

Ma da dove nasce questo sguardo nuovo di fronte alla realtà? Quale è la sua struttura originale dell’uomo? Nell’incontro “Il senso religioso: il fatto più imponente nella vita dell’uomo”, Monica Scholz-Zappa è andata a fondo di questo riflettendo su due parole chiave del pensiero e della proposta educativa di don Giussani fondamentali per riconquistare la consistenza dell’io: “senso religioso” ed “esperienza elementare”, perché cioè che muove l’io muove anche la storia: «Don Giussani ci ricorda che si comincia dall’io: è a partire dalla libertà dell’io che si può interrompere la catena del vortice di male così diffuso oggi. E ciò che garantisce la libertà all’uomo è essere legame con il punto più libero dell’universo, ovvero con Colui che ha creato l’universo: il Mistero, Dio».



In un altro momento di Bergamo Incontra dedicato al tema della pace, Alberto Reggiori, medico chirurgo che è stato in missione sulla nave italiana Vulcano che accoglie i feriti provenienti dalla Striscia di Gaza, e padre Aleksej Uminskj, sospeso a divinis dal Patriarcato di Mosca e ora reintegrato come sacerdote in seno al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, hanno evidenziato come il lavoro per la pace passi attraverso il cambiamento personale di ciascuno. Padre Uminskij, in particolare, ha spiegato come è arrivato al perdono verso chi lo ha privato della dignità sacerdotale per aver pregato per la pace: «Io non sento alcun rancore per le persone che mi hanno cacciato dalla mia chiesa. E prego molto per loro. Perché sono convinto che la pace inizi da questo».

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Insomma, sono stati giorni che hanno mostrato come una “novità di vita” generi un’amicizia indistruttibile tra persone di temperamenti, origini, antecedenti familiari diversi. Uno spettacolo di pienezza che è emerso anche nell’incontro dedicato al titolo della kermesse, “Vogliamo vivere per qualcosa”, moderato da Franco Nembrini, professore e saggista, e sviluppato attraverso le testimonianze di don Massimo Granieri, critico musicale, Andrea Falesi, impiegato amministrativo e Mauro Mancini, taxista, tutti accomunati dalla passione per Dante che li ha portati a conoscere il carisma di don Giussani. Esperienze di vita molto diverse, che mostrano come Cristo continui a bruciare 2000 anni di storia e, attraverso la sua grazia, arrivando a toccare chiunque, a prescindere dagli antecedenti familiari, culturali e storici.

* presidente di Bergamo Incontra