La facoltà di Medicina all'Università di San Paolo, Brasile

Brasile: il grido di chi vuole imparare a vivere

Un'ondata di tentati suicidi. E decine di ragazzi "depressi". Accade fra gli studenti di Medicina di San Paolo. «Serve ripartire dall'esperienza e dalla fede», è la proposta di alcuni di loro. La strada? Si chiama educazione (da "Aleteia.org")
Marco Montrasi

Studiare Medicina esige enorme dedizione. Il processo di selezione è il più combattuto, il clima di competizione è continuo durante tutti i sei anni di corso, e alla fine ci sarà una lotta sui posti per le specializzazioni mediche.

A dicembre 2016, una delle riviste scientifiche mediche più blasonate del mondo (JAMA. 2016) ha reso noto che, in media, il 27% degli studenti di Medicina presentano i sintomi della depressione. Questo tema è tornato alla luce di recente, quando, solo nei primi tre mesi di quest’anno, si sono verificati quattro tentativi di suicidio al quarto anno del corso di Medicina dell’Università di San Paolo (USP), il più ambito del Paese. L’istituzione si è mobilitata per cercare altre persone a rischio e pensando come intervenire.

In mezzo a questa situazione, un gruppo di studenti cattolici dello stesso quarto anno (che conta 175 alunni) ha organizzato un evento pubblico con un professore di Psichiatria, intitolato: “Il nostro volto nella facoltà”. L’evento era un piccolo dettaglio nel ventaglio di proposte che i fatti stavano generando. Tuttavia, non è passato inosservato. Il loro movente è stato ben chiaro ancora prima dell’evento: «Il nostro gesto pubblico è per portare il contributo che la fede può dare in questa situazione di malessere dell’uomo di oggi». All’evento, la platea era fondamentalmente costituita da alunni e da professori, alcuni tra i più titolati dell’Università. La proposta è stata ben diversa da ciò che veniva offerto in quei giorni e parlava di una grande risorsa che abbiamo tutti ma che non utilizziamo mai: la nostra esperienza. «Che cosa è questa cosa tanto semplice e banale che chiamiamo esperienza umana? Cosa accade in me quando mi rendo conto di essa?». Ci sono state testimonianze, domande e risposte. Alla fine, la psicologa responsabile dell’assistenza agli studenti ha cercato quel gruppo di ragazzi che avevano organizzato la cosa dicendogli: «Venite ad aiutarmi con questo vostro metodo della esperienza». In mezzo a quell’ambiente scientifico, competitivo, dove non mancano le analisi, un piccolo gruppo di studenti ha portato una novità semplicemente parlando della necessità di imparare a fare esperienza: non esiste una circostanza buona e una cattiva, ma con tutto si può imparare e crescere, cioè imparare a ricercare e trovare il proprio volto dentro il quotidiano.

''Stiamo insieme'': una scritta degli studenti del IV anno di Medicina a San Paolo

Questo fatto verificatosi poche settimane fa descrive la situazione che viviamo e rivela una novità: ci troviamo di fronte a circostanze difficili da interpretare, davanti alle quali molte volte non sappiamo come muoverci, e questo non riguarda solo gli adolescenti o i giovani. È evidente che esiste un malessere, un'incapacità di vivere e, di conseguenza, una ricerca di soluzioni che nella maggioranza dei casi si mostrano insufficienti. Da qui nasce un grido sordo, soffocato perché non si ha il coraggio di manifestarlo, che facilmente diventa disperazione. Ma di cosa è segno questo grido? È come se non riuscissimo più a sopportare l’insoddisfazione, la mancanza di senso, il disinteresse. È il grido di chi ha bisogno di una strada per poter vivere. In fondo, è quel grido di desiderio di infinito che tutti portano dentro di sé e che ha bisogno di una risposta. Per questo, la grande parola che si deve riscoprire è la parola “educazione”.

Perché “educazione”? Un grande teologo, Jungmann, citato recentemente da papa Francesco, definiva l’educazione come «introduzione alla realtà totale». Ma entrare nella realtà totale non significa conoscere tutti i dettagli infiniti del mondo, non è questa l’idea di totalità. Io ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a percepire il significato di quel pezzo di realtà che ho da vivere: lo studio, il lavoro, le preoccupazioni, l’amore, il futuro... Io sono esigenza di una risposta totale, cioè, di una risposta che giunga fino al profondo, fino a trovare un significato.

Papa Francesco in Brasile nel 2013 per la GmG

Educare non è trasferire nozioni. Se pensiamo concretamente a cosa sia stata l’educazione per noi, ciascuno vedrà che è stato essere introdotti a qualcosa di nuovo che è diventato proprio, generando una crescita personale. Non è stato l’aver incontrato qualcuno che ci ha passato definizioni o nozioni, ma qualcuno che ci ha aperto una ferita, perché non ci ha lasciato più tranquilli. Una non-tranquillità buona, che ha aperto una strada nuova e che ha destato la mia umanità che era addormentata. L’esperienza dell’educazione è questo: incontrare qualcuno che non mi lascia tranquillo perché mi apre a una cosa nuova, spalanca le dimensioni del mio cuore e aumenta in me la capacità di contenere qualcosa, come un bicchiere che aumentasse di dimensioni e potesse contenere di più. Per questo è drammatico, per questo è una ferita: perché aumenta la sete, di bellezza, giustizia e verità.

L’educazione si può paragonare con l’esperienza che uno fa quando è perduto e qualcun'altro mostra la strada. Quando incontri qualcuno così, in queste circostanze, facilmente dici: «Questo è un angelo»; e vorresti baciarlo e abracciarlo. Perché? Perché senza di lui tu non saresti arrivato a un altro luogo nuovo, dove avevi bisogno di andare e, più importante, dove adesso puoi tornare con le tue gambe. Educazione, con tutte queste sfumature, è essere introdotti al significato di una realtà, e questo genera l’esperienza della crescita: cresce qualcosa in me, qualcosa di me si sveglia, scopro il mio volto - per tornare all’episodio degli alunni della USP -. È l’esperienza fisica di sentirmi più grande perché divento più “io”.

L’educazione accade quando uno ti insegna un metodo, cioé un cammino. Quando parliamo di educazione, di che cosa parliamo? Di persone che incontriamo. Possiamo usare, qui, la parola “maestro”. Se ci pensiamo un attimo, ciascuno di noi potrà identificare nella propria vita un maestro. Chi è stato questo maestro? È stato qualcuno che ti ha fatto entrare nel significato di una realtà, qualcuno che ti ha insegnato un cammino, qualcuno che ti ha insegnato un metodo per crescere. Il maestro ti conduce a un’altra realtà che sta “al di là” di se stesso, qualcosa di affascinante che ti fa desiderare andargli dietro per conoscere di che si tratta. E per questo quella persona ha uno sguardo che brilla, per questo affascina. Generalmente, dopo un po’ di tempo, non ci ricordiamo di quelle persone sagge o intelligenti che vivono di luce propria, i “gurú”, gli illuminati per se stessi. Esistono molte persone così, ma questo fascino passa presto. Ricordiamo e restiamo segnati da persone che hanno negli occhi un orizzonte, un’altra realtà che va oltre, un "altro" che loro stesse seguono, e questo le fa brillare. Non solo i giovani, ma anche noi adulti sentiamo la mancanza e abbiamo bisogno di queste persone oggi.

Il maestro ti conduce a un’altra realtà che sta “al di là” di se stesso, qualcosa di affascinante che ti fa desiderare andargli dietro per conoscere di che si tratta

Nel libro La bellezza disarmata, Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, cita questo poema di Tagore, che esprime tutta la sfida dei tempi di oggi che è amare la libertà: «In questo mondo coloro che m’amano cercano con tutti i mezzi di tenermi avvinto a loro. Il tuo amore è più grande del loro, eppure mi lasci libero». Quando c’è questo amore, il giovane lo riconosce, perché riconosce uno che gli dà lo spazio per crescere.

La presentazione di ''A beleza desarmada'' a San Paolo, l'11 settembre 2016, con Julián Carrón

Questa è la sfida che i giovani ci lanciano e che noi adulti abbiamo il dovere di accettare: «Scommettere sulla capacità del giovane di sapere giudicare», afferma Carrón nel suo libro. Questa è la cosa più affascinante, e che spesso ci manca. Manca in noi la fiducia nella capacità che i giovani hanno di sapere giudicare, la fiducia che essi hanno in sé qualcosa che possono cominciare a usare. Quando qualcuno li guarda così, quando un giovane è guardato così, si sveglia qualcosa dentro di lui, diventa più libero. Quando io sono libero per scommettere tutto su una persona - perché so che ha un cuore (quella sete di bellezza, di giustizia e di verità) col quale può comparare tutto quello che accade e giudicare -, io sono libero e lei pure diviene più libera. Ma ciò comporta un rischio.

Cosa può generare questa fiducia che sa rischiare? Cosa genera questa visione del futuro al punto di saper educare con pazienza e libertà, e, così, scommettere su questa capacità che il giovane ha, anche sbagliando, di trovare qualcosa di vero, non desistere, tornare il giorno seguente e non scoraggiarsi? È l’esperienza nel presente di qualcosa che è certo, vivo e vero, qualcosa che in primo luogo genera in noi una sovrabbondanza e una speranza. Solo con una certezza così, che sostiene tutto il futuro, senza che siamo dominati dal timore e dall'incertezza, possiamo avere questa pazienza instancabile. Questo si chiama speranza.

E solo con speranza è possibile costruire e dare il tempo perché l’altro possa capire. Abbiamo un esempio chiaro di ciò oggi: papa Francesco. O è un visionario o vive poggiato su una Presenza che gli dà la certezza rispetto a tutto il futuro, pur con tutte le domande che la storia presenta. Solo con la certezza di Qualcuno che mi aspetta io riesco a non scoraggiarmi quando cado e posso tornare a camminare e riprendere la strada. Questa esperienza nel presente genera energia creativa in chi educa.

Solo con la certezza di Qualcuno che mi aspetta io riesco a non scoraggiarmi quando cado e posso tornare a camminare

Tutta questa energia creativa viene da qualcosa che accade nel presente, che noi adulti possiamo scoprire. Quegli alunni di Medicina l’hanno chiamato «il contributo della fede. Loro hanno fatto una proposta. È un momento di emergenza perché è necessaria una lealtà, la lealtà di una ricerca. Devo cercare se esiste qualcuno che vive con questa speranza e con questa certezza. E, se questo mi interessa, andare fino in fondo, fino a scoprire cosa rende possibile vivere così, come chi ha scoperto un metodo che lo rende capace di vivere.

«È sufficiente una candela accesa per illuminare la notte più scura», diceva papa Francesco. Questo sono stati quegli alunni di Medicina della USP che, di fronte alla notte oscura del dramma di tanti colleghi, si sono resi protagonisti di una novità, andando dietro a chi non era rimasto dominato dal timore, ma ha proposto un cammino per una certezza e per una speranza.

Di fronte ai problemi di quell’“io” che non riesce a trovare pace, abbiamo bisogno di seguire queste “candele” con semplicità e decisione, senza restare rinchiusi in quello che giá sappiamo.