Don Pigi Banna guida la Via Crucis a Santarcangelo di Romagna

Triduo di GS. «Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?»

Cinquemila ragazzi dall’Italia a Rimini dal 29 al 31 marzo per il Triduo Pasquale. Tra lezioni, Via Crucis e testimonianza, tre giorni utili a preparare la Pasqua e ad affrontare gli ultimi mesi di scuola più coscienti delle domande di ognuno
Michele Brusa

Ultimi giorni di marzo, in 5mila tra ragazzi delle superiori e professori dall’Italia e dal mondo ci siamo mossi per arrivare a Rimini e vivere assieme il Triduo Pasquale.
Già da giovedì sera in salone ci aspetta una sorpresa: la musica d’ingresso che aiuta a mantenere il silenzio non esce più dagli stereo, ma arriva direttamente dagli strumenti di una decina di ragazzi sul palco. Tra ottoni, pianoforti e chitarre, gli occhi di tutti i musicisti sono intenti a leggere lo spartito, le mani tese sulle tastiere per non sbagliare una nota, tutto per permettere a chi entra di iniziare a concentrarsi.
Una ragazza del servizio d’ordine mi raccontava che, vedendoci entrare la prima sera, si era stupita di come avessimo tutti abbandonato la corsa per le prime file, quasi fermandoci tanto eravamo intenti ad ascoltare.

È di Pär Lagerkvist la domanda che quest’anno ci ha accompagnati lungo i tre giorni del Triduo. «Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?» si chiedeva lo scrittore, e non solo lui se quasi tutti i contributi arrivati a don Pigi Banna reclamavano questo sentimento di mancanza, vuoto e assenza nelle vite e nei cuori di chi li aveva scritti.

È come se ci dicessimo: «Meglio soli che sbagliati». Ed è un vuoto che cerchiamo di reprimere solo perché abbiamo la fissazione di piacere agli altri, ci diceva don Pigi, di non essere giudicati fastidiosi e pesanti. Tutti i tentativi però si rivelano inutili se, come testimoniava una ragazza: «Più cerco di reprimere il vuoto, più lo sento!». Allora anche isolarsi dal mondo diventa inutile e controproducente, come Giuda che, tradendo Gesù e pensando di essere più libero, alla fine andò ad impiccarsi.



La grande menzogna del nostro tempo, ci diceva sempre don Pigi, è credere che il nostro senso di disagio sia sbagliato e che ci siano delle domande in noi a cui dobbiamo rispondere da soli. Invece, come descrive perfettamente Marina Corradi nell’articolo La mia crepa, anche questa crepa del nostro cuore, questa ferita può diventare strumento per capire che abbiamo sempre bisogno di qualcosa e che da soli non siamo in grado di curarci. «Perché quella ferita? Se non ci fosse, io fisicamente sana, io non povera, io fortunata, non avrei bisogno di niente», scrive la Corradi: «È una salvezza, quel muro spezzato, quella falla. Da cui un fiotto di grazia, incontrollato, può entrare e fecondare la terra inaridita e dura».

Cosa ci permette di non stare ingarbugliati nei cento e cento altri pensieri della nostra mente? Solamente uno che ci vuole bene non «perché mi servi», ma per il semplice fatto che esisti. Solo uno così può far rinascere il nostro io. Come cantavamo in Fire of time di David Ramirez, abbiamo bisogno di un tu che «mi ricordi chi ero, chi voglio essere / Tu mi ricordi che non sono vuoto, anche se non sono completo»

«Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?». San Pietro si rivela il personaggio paradigmatico che risponde a questa domanda. Egli aveva incontrato un uomo, Cristo, con il quale era bello passare il tempo, un uomo da cui non riusciva più a staccarsi. Il tratto fondamentale della figura di Pietro è che non riesce mai a definire Gesù e che davanti a Lui l’unica domanda che nasceva era: «Chi sei tu?».
Spesso invece noi pensiamo, ci faceva notare don Pigi, di sapere già la risposta a questa domanda e quindi ci troviamo a creare un percorso logico del tipo «sento una mancanza, si tratta della mancanza di Cristo e adesso che lo so tutti i miei problemi si risolveranno».
In questo modo finiamo con il formarci un Cristo della nostra mente e delle nostre emozioni o, come dice don Giussani, con la tentazione «di “staccarsi” da questo seguire, per la presunzione di sapere già ciò che vien chiesto. La grave scorrettezza è sospendere il metodo, pensando di rimpiazzarlo con la propria capacità».



Venerdì pomeriggio la Via Crucis a Santarcangelo di Romagna è stata la migliore occasione per verificare quanto era stato detto al mattino. Si trattava di capire se davvero l’avvenimento cristiano fosse il punto di vista chiarificatore di tutte le esperienze della nostra vita, oppure solo una risposta già saputa che ogni tanto riesce a risollevarci il morale. Personalmente il metodo è stato quello di una sequela semplice e silenziosa della croce, come quella di Pietro che, semplicemente, aderiva al fascino di Cristo.

Sabato mattina abbiamo assistito alla testimonianza di Rose Busingye, arrivata a Rimini dall’Uganda. Ci raccontava di come lei sia stata conquistata dalla scelta di Dio di farsi di quella stessa carne di cui siamo fatti tutti noi. I suoi occhi e le sue parole erano testimonianza di una vita accompagnata dalla domanda: «Chi sei tu?». Più di una volta ci ha fatto riflettere sull’immagine dell’Icaro di Matisse: è quel cuore rosso in un corpo nero che dà senso a tutto il quadro, è quel puntino lì che sempre e immancabilmente ci attira a qualcosa di più grande. Ed è sempre questo cuore che permette a Cristo di riacciuffarci e di farci scendere dagli alberi delle nostre idee e costruzioni logiche.
Come ci diceva don Julián Carrón nel saluto a conclusione del Triduo, è «proprio la possibilità di percepire questa assenza la più grande risorsa che abbiamo ricevuto, come un regalo fatto alla nostra natura di uomini: il detector per scoprire che cosa risponda veramente alla nostra attesa».
Gesù ha scommesso tutto sul nostro cuore (a partire da quello dei primi due, incontrati sulle rive del Giordano), lasciandoci liberi di non capire e di scappare, ma avendo fiducia nella nostra appartenenza all’unico posto che ci rende liberi. Sempre Carrón scriveva che «Gesù ha riconosciuto che [gli apostoli] avevano la capacità di intercettare quello che rispondeva al loro sterminato desiderio di felicità», e così anche don Pigi ci augurava buona Pasqua chiedendoci: «E noi di chi siamo? Chi ci può rispondere?».