Henry Geoffroy, <em>Giorno di visita in ospedale</em> (1889).

CONVEGNI Chi prende sul serio l’uomo che soffre?

A Torino, la Cei ha proposto tre giorni di lavoro a quanti hanno a che fare con il mondo della sanità. Tra interventi e dialoghi, la scoperta che il dolore è «la prova del nostro desiderio infinito»
Stefano Giorgi

Chi chiede di essere curato chiede di essere salvato. Chi può prendere sul serio, fino in fondo, questa esigenza infinita? E cosa significa stare di fronte al mistero della sofferenza? Per affrontare queste provocazioni, dal 15 al 17 aprile si è svolto, a Torino, il Convegno nazionale dei direttori degli uffici diocesani, delle associazioni e degli operatori della pastorale della sanità. Un importante appuntamento, alla dodicesima edizione, proposto dalla Cei e dal suo Ufficio nazionale per la pastorale della sanità, diretto da don Andrea Manto. Tre giorni di intenso lavoro, con relazioni, approfondimenti, dialoghi, preghiera e convivenza, che si sono conclusi con l’adorazione della Sindone da parte di tutti i partecipanti.
Non a caso, quest’anno, il convegno si è svolto a Torino. Come ha detto il cardinale Angelo Bagnasco aprendo i lavori, «l’ostensione della Sindone, che costituisce quasi una fotografia dell’”Uomo dei dolori” e conserva fedelmente la “memoria” delle ferite e dei traumi da Lui riportati, offre a tutti noi l’opportunità per fermarci a riflettere sul tema della sofferenza in chiave teologica ed antropologica. L’espressione Passio Christi, Passio Hominis, che dà il titolo a questa ostensione straordinaria, evidenzia il legame tra la sofferenza di Cristo e quella dell’uomo e ci provoca a cercare il significato di entrambe nella nostra vita di uomini e di credenti». Un tema impegnativo, ma la cura del gesto messa in campo da don Andrea Manto ha permesso a tutti i partecipanti di addentrarsi in un cammino di conoscenza di quella passione per l’uomo che ha portato il mistero di Dio che si fa carne in Cristo.
Tutti quelli che si sono avvicendati sul palco - dai filosofi Francesco Botturi e Salvatore Natoli, ai medici Enrico Larghero e Giorgio Bordin, fino ai rappresentanti di ordini religiosi, costruttori di opere di carità nel mondo della salute: dalle Figlie della Carità ai Camilliani, dal Cottolengo al Fatebenefratelli - ci hanno aiutato a percepire la sofferenza «come mistero: mistero non tanto e non solo come realtà che sfida la ragione umana, ma come realtà che ci trascende, che si fa sentire come più grande di noi... Nella sofferenza, di fronte al fallimento dei propri progetti e desideri, nella perdita delle forze e dell’autosufficienza, si capisce meglio la nostra finitezza, la nostra creaturalità: si tocca con mano che non ci si salva da soli e che abbiamo bisogno degli altri e soprattutto dell’Altro», ha detto il cardinale Bagnasco. E, al contempo, la sofferenza «è la prova del desiderio», come ha spiegato Botturi: «È la prova che abbiamo un desiderio infinito di compimento».
È così che Giorgio Bordin, direttore sanitario della Casa di cura “Piccole Figlie” di Parma, ci ha messo davanti alle immagini che il tema della sofferenza ha dettato all’arte. Perché «guardare è fondamentale. Chi guardo mi riguarda, mi interessa: la relazione è costitutiva dell’Essere». L’uomo «è desiderio di perfezione e compimento», ci ricordava citando don Giussani, e «la malattia è l’anticipo dell’apparente impossibilità di realizzare il desiderio: chi chiede di essere curato chiede di essere salvato».
Ricordando Cicely Saunders, l’infermiera inglese che ha dedicato la sua vita ad assistere i malati terminali, che diceva che «la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza», il cardinale Bagnasco ha affermato: «È la presenza del grande Paziente, Cristo crocifisso: è la sua presenza che abita e colma la solitudine del corpo e dello spirito in quelle fragilità così personali e profonde dove nessuna umana presenza può abitare pienamente. Ma la presenza di Gesù provoca anche la nostra presenza accanto al malato e al sofferente, e la chiama in causa proprio attraverso la sofferenza di ogni uomo per il quale sappiamo che dobbiamo farci “prossimo” sul suo esempio e con la sua grazia».
Una passione, una tenerezza per l’umano generata dall’incontro con Cristo risorto, come ci hanno testimoniato i rappresentanti dei grandi ordini religiosi il sabato mattina. «Carismi e testimonianze che - ha ricordato monsignor Giuseppe Merisi, concludendo i lavori - ci permettono di essere coscienza critica nella società civile a partire dalla nostra testimonianza, sempre in vista del bene comune».
Come ha osservato don Andrea Manto, «il convegno dice una cosa: l’importanza di fronte alla sofferenza di convertire il nostro sguardo. Occorre guardare l’uomo perché lì possiamo continuare a incontrare il Signore. In secondo luogo, è necessario ritornare a pensare (è l’invito del Papa ad allargare la ragione), altrimenti il nostro sguardo non si può convertire. Così il nostro prenderci cura è annuncio e costruzione del Regno. Allora, anche i grandi ordini religiosi non sono chiamati a guardarsi dietro, ma a prendere sempre più coscienza dell’attualità dei carismi al servizio dell’unica Chiesa di Dio». E i tre giorni sono stati proprio questo: lo spettacolo di un’esperienza di Chiesa, come compagnia guidata al Destino.