CAMBOGIA La medicina del catechista del Mekong

Missionario da dieci anni nel sud-est asiatico, padre Alberto racconta della malattia di un suo fedele colpito dal cancro. E di una comunità che scopre una fede più preziosa della stessa guarigione
Alberto Caccaro

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

(Confidare, Antonia Pozzi)


Questa mattina ho celebrato la santa messa lungo il Mekong, a pochi metri dalla riva. Visito questa piccola comunità due volte al mese. Dall’altare quando innalzo il pane, Corpo di Cristo, ed il calice, colmo del Suo Sangue, vedo sullo sfondo le acque del fiume. Scorrono silenziose, solenni, inarrestabili.
Oggi mancava all’appello il catechista, un uomo sulla sessantina, senza famiglia, che da più di vent’anni serve fedelmente questa piccola comunità cattolica, tutta di origine vietnamita. In anni tutt’altro che facili, senza preti e senza chiesa, la comunità si radunava, convocata da quest’uomo. Questa mattina per la prima volta mancava, perchè una settimana fa, colpito da forti dolori allo stomaco, è stato portato d’urgenza in Vietnam e operato. Cancro. Mai abbastanza si potranno ringraziare questi catechisti, sempre presenti, sempre obbedienti.
Senza immaginare il precipitare degli eventi nella vita di quest’uomo, avevo avuto con lui e con altri catechisti un incontro e avevo raccontato dei miei primi errori, negli anni di studio della lingua khmer. In quel periodo commettevo spesso un errore di pronuncia: confondevo la parola fede con la parola malattia. Pronunciavo l’una al posto dell’altra. Avevano un suono talmente simile, almeno così mi sembrava all’inizio, che nel pronunciarle le scambiavo. Si scrivono in modo diverso, ma all’inizio, il loro suono mi sembrava lo stesso... Con il tempo, mi sono accorto però che queste due parole devono andare insieme, sempre. Perché la fede può essere una sorta di malattia, di ferita dell’anima, che si rimargina e guarisce solo se stiamo con Lui. Come la sposa, nel Cantito dei Cantici, che cerca disperatamente lo Sposo, l’amato del suo cuore, e non è in pace, soffre, è ferita, fino a che non trova il suo diletto... O come nei versi poetici e mistici di Elena Bono: «Ed è questo che vuoi, / soltanto questo in cambio dell’infinito amore: / che io soffra l’amor tuo, / che me lo porti come piaga profonda / e non la curi». Il Signore conosce le nostre ferite, per questo ci chiama a sé. Allora avevo raccomandato ai catechisti di tenere sempre insieme la fede e la malattia, la fede e la vita. E di cercare sempre il Signore perché Lui, per noi, è una questione di vita o di morte. Ma mai avrei pensato che di lì a poco, il catechista del Mekong, si sarebbe seriamente ammalato. Presto, alla ferita dell’anima si sarebbe aggiunta una più grande, devastante ferita del corpo: il cancro. Con la fatica di ribadire la stessa verità: fede e malattia, insieme.
Appena arrivato per celebrare la messa, mi sono accorto di un’aria diversa. Mancava lui e la comunità si sentiva disorientata, persa. Nella scelta dei canti, nella preparazione delle letture, fino a questa mattina, lui non mancava mai. Una lavagna, in chiesa, riportava l’ultima sua lezione: una serie di moltiplicazioni e sottrazioni, insegnate ai bambini, prima di cadere malato. I parenti mi dicevano che nel momento della crisi, chiedeva di essere portato in chiesa e lasciato morire. Non avrebbe avuto il denaro per far fronte all’intervento chirurgico e a quanto ne sarebbe seguito... Fede e malattia, insieme, non solo per un errore di pronuncia, come mi accadeva all’inizio, ma per un’eccedenza di senso che solo le stigmate di Francesco riescono a mostrare. Ferita dell’anima e ferita del corpo. La fede.
Qualche giorno fa in macchina ascoltavo L’infinitamente piccolo di Branduardi. Il brano n. 5 è la versione in musica di quello che Dante dice di San Francesco. Nel canto XI del Paradiso, Dante parla delle stigmate di Francesco e dice: «Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo». Come se quelle piaghe impresse, quelle ferite del corpo, fossero l’ultimo sigillo, l’ultimo e più eloquente segno di una ferita dell’anima, di un’appartenenza a Cristo, che ha occupato Francesco per tutta la vita. Le ferite di Francesco, sono le stesse ferite di Cristo. Dio mio! La fede cristiana e le sue riserve di senso! Quello che mi affascina del Cristianesimo è questa totalità di significati. Questa continua eccedenza che la vita di fede porta con sé. «Che cosa vedo attraverso la ferita?», si chiede San Bernardo, nei Discorsi sul Cantico dei Cantici. «Hanno trapassato le sue mani e i suoi piedi, e squarciato il suo petto con la lancia (...). Ora il chiodo che è penetrato, è diventato per me una chiave che apre, onde io possa gustare la dolcezza del Signore. Cosa vedo attraverso la ferita? Il chiodo ha una sua voce, la ferita grida che Dio è davvero presente in Cristo e riconcilia a sé il mondo».
Ci sono momenti nella vita in cui la fede vale più di qualsiasi medicina. La fede che fa di ogni ferita una feritoia, e io vedo al di là. L’al di là. Vedo attraverso la ferita «che Dio è davvero presente in Cristo e riconcilia a sé il mondo». Mi sovviene un passaggio tratto dal libro di Giobbe: «Sotto la mia pelle hanno tagliato questa; ma dalla mia carne vedo Dio, questo vedo io, per me solo; i miei occhi lo hanno visto; non è un’estraneo, ...». Dice bene Umberto Galimberti «Qui la pato-logia raggiunge la sua essenza, che non è da cercare nella malattia, ma in quel patire (pathos) che si fa parola (loghia)». La ferita grida. E più avanti, citando Heidegger, scrive che occorre un pensiero «capace di uscire dall’ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola, e sappia arrischiare nell’Aperto dis-chiuso del pensiero che ringrazia» e «pone la cosa in relazioni che oltrepassano il recinto delimitato dal calcolo e chiamano in gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra».
Questa mattina, pregando, abbiamo chiesto il dono della fede. Le notizie arrivate dal Vietnam sono chiare. Non guarirà. Quando in questi villaggi qualcuno si ammala, cominciano a circolare voci di ogni tipo su possibili rimedi... Comprensibile. Mi hanno chiesto se è possibile un trapianto di stomaco... Ma abbiamo preferito chiedere il miracolo della fede. La prima lettura della santa messa parlava di Abramo, chiamato da Dio a lasciare la sua terra per un paese di cui, nel testo, non si menzionava il nome. Ho pensato al nostro catechista, anche lui chiamato ad andare altrove... Dopo messa, una sua nipote ha riordinato le sue poche cose. Mi ha fatto tenerezza vedere un paio di pantaloni, consumati dal tempo, qualche camicia. Niente più. Né moglie, né figli. Solo Madonna Povertà, come Francesco. Le stigmate impresse nel suo corpo, come Francesco. E una telefonata in cui, dal letto d’ospedale, ricordava ai suoi di stare pronti perché oggi sarebbe arrivato il padre a celebrare la messa.
Oh, la fede, per la quale «la ferita grida che Dio è davvero presente in Cristo e riconcilia a sé il mondo»!
Ora, sento profondamente vere queste parole di Etty e mi fermo: «Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare». Ma ci sono sempre un pò di versi a farmi compagnia: «Altro ora nell’impazienza di vederti / mi preme sapere, mio Dio: / quanto del nostro male ti sia imputabile, / del male che anche tu paghi, / di questo mostruoso male pure per te inevitabile ...» (D. M. Turoldo).