Don Giacomo Panizza.

Il prete sotto scorta e la visita del Papa

Don Giacomo Panizza, bresciano da più di 30 anni al Sud, racconta l'incontro con Benedetto XVI. E l'anno di preparazione con la sua gente. Poi le minacce della 'ndrangheta e la vera paura: «Quella di cambiare strada»
Alessandra Stoppa

«Non sono da solo». Liquida con gentilezza la domanda, quando si parla di lui. E taglia corto sul suo impegno di oltre trent’anni in mezzo alle cosche. «Non sono da solo», ripete. Ma è proprio dalla presenza di don Giacomo Panizza, prete bresciano finito al Sud e sotto scorta, che sono nate realtà, opere e progetti a non finire per la comunità di Lamezia Terme. Per i disabili e le ragazze madri, i disoccupati, i tossicodipendenti, e tanta gente comune che non aveva nessun tipo di risposte. Né la scuola, né i servizi sociali, né la fisioterapia... «Non sono mica io l’inventore del volersi bene. Dell’aiutarsi. Il Signore mi ha aiutato ad avere le idee, ma poi è la gente che ha dato gambe, braccia e respiro a tutto. Facciamo tutto insieme».
La sua gente. Non ha altro pensiero in fondo neanche oggi, quando parla entusiasta della «perla» appena accaduta: la visita di Benedetto XVI nella sua diocesi. «Quando me lo sono trovato davanti, mi è scappato: “Grazie! Grazie di tutto quello che ci dice, perché ci aiuta ad allargare la nostra visione”». Una delle cose che più lo hanno colpito della visita del Papa è stata la preparazione. Un anno di cammino con giovani e adulti della diocesi. Il desiderio era che il Santo Padre potesse andare lì e conoscere ciò che quella terra è: «Non siamo un punto geografico qualunque, ma preciso. Con tutte le sue ferite e le sue risorse». Ma poi sono stati innanzitutto loro a conoscere il Papa: «Quest’anno è stato un percorso di tanti, tantissimi incontri, in cui abbiamo ripercorso quello che Ratzinger ha detto da quando è Benedetto XVI. E la cosa incredibile è che la gente mi diceva: “Ah, ma il Papa è così? Dice questo?”. Hanno imparato a conoscere la Chiesa e la sua guida».
Così, quando è stato faccia a faccia con lui lo ha ringraziato. «Tutto quello che ha detto e dice ci aiuta a vedere che non c’è solo la nostra realtà: che la vita è più grande di quello che viviamo». È entusiasta di questi giorni di visita papale, e non «per l’evento chic. Ma perché, con frasi asciutte e senza giri, il Santo Padre ha toccato temi grandi: ciò di cui questa gente ha bisogno. Si pensa abbia bisogno solo di economia, invece no: ha bisogno di simboli alti. Le parole del Papa sono i veri pilastri del futuro. E non perché il futuro funzioni, ma perché questa gente cresca».
È il desiderio per cui spende tutta la vita e per cui è inarrestabile di fronte alle minacce mafiose. È la domanda che tutti hanno di fronte a lui: chi glielo fa fare? Da dieci anni in programma di protezione imposto dallo Stato per le intimidazioni della ’ndrangheta che lo vuole paralizzare. E lui lì, a fare. «La paura c’è», dice: «È un pezzo di me. Ma è molto più forte la paura di cambiare strada e piegarmi a loro». Racconta che vivere sotto scorta cambia l’esistenza, in tante cose, «ma non sull’essenziale. Non posso andare ai concerti jazz come vorrei, devo rendere conto, sarei certamente più gironzolone. Ma io non ho dovuto rinunciare a nessuna delle cose importanti della vita. Solo la paura potrebbe bloccarmi, e io non la comando, posso solo pregare. Ma c’è Dio in tutto, anche in me, e mi tiene legato alle cose grandi della vita».