Schuster. «Altro ricordo da darvi non ho»

A 70 anni dalla morte, su "Tracce" di Luglio-Agosto un viaggio nella vita del beato Arcivescovo di Milano. E nella sua eredità: «La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione. Ma, di fronte alla santità, ancora crede»
Ennio Apeciti*

«È proprio dei Santi restare misteriosamente “contemporanei” di ogni generazione: è la conseguenza del loro profondo radicarsi nell’eterno presente di Dio». Questo scrisse san Giovanni Paolo II nella Lettera Operosam diem (1° dicembre 1996) in occasione del 16° centenario della morte di sant’Ambrogio. Mi pare siano parole che possono valere anche per il beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, del quale ricordiamo i settant’anni della morte. Cosa può insegnare ancora a noi?

Alfredo nacque a Milano il 18 gennaio 1880. Suo padre, Giovanni, era stato uno zuavo pontificio, un militare, ma dopo la fine del potere temporale del Papa si era adattato a fare il sarto, non guadagnando certo molto, anche perché alla nascita di Alfredo aveva già 61 anni ed era al suo terzo matrimonio, con Anna Maria Tutzer, trent’anni più giovane di lui, che aveva accettato di prendersi cura dei figli di quel vedovo. Quattro anni dopo, giunse la sorella Giulia, insieme alla povertà e al dolore: il papà morì che Alfredo aveva appena 9 anni. E lui ricordò sempre quello che avvenne dopo il funerale, quando la mamma aprì l’armadio e diede ai figli due o tre pani, qualche moneta e disse: «È tutto qui: domani non avremo più nulla da mangiare». Di fatto solo la carità dei vicini e l’industriosità della mamma – che fece la donna delle pulizie a ore – permise loro di sopravvivere.

Alfredo non si fece sconfiggere – come accade oggi a molti – da queste prove. Leggiamo dal suo Diario: «Rimani raccolto. Soprattutto evita l’ozio, come padre di tutti i vizi. Sii sempre operoso e studia». E lo fece, animato dalla fede che la mamma gli trasmetteva. Sempre nel Diario: «Ama, ama assai, ama perdutamente, prima il tuo Dio, quindi la Sua Adorabile immagine in tutti gli uomini». Fu il suo ideale e lo trasmise anche alla sorellina più piccola, Giulia, cui l’8 maggio 1907 scrisse: «La nostra patria, il nostro regno, la nostra casa paterna è il cielo (…). Il regno di Dio è dentro di noi, è là nel secreto della coscienza, nel silenzio dell’anima che noi dobbiamo vivere questa vita intensa di carità, e di fede che vuole Gesù». Non si vergognò mai di essere povero, tanto che nel suo Testamento scrisse: «Sono nato e vissuto povero, ed essendo monaco, anche sul trono di sant’Ambrogio, mi sono sempre considerato, non già proprietario, ma dispensiere dei beni della mia Chiesa».

Non mancano mai le persone buone, così il barone Pfiffer d’Althishofen, colonnello della Guardia Svizzera, nel 1891 si interessò perché l’undicenne Alfredo fosse accolto tra gli “oblati” del Monastero di San Paolo fuori le Mura. I benedettini, infatti, da sempre accoglievano i ragazzi poveri, curandone l’istruzione e la formazione, condividendo il loro stile di vita e la loro spiritualità sino a che, divenuti maturi, sarebbero stati liberi e pronti di tornare dalla loro famiglia, di farsi la loro vita felice.

Alfredo, invece, scelse di rimanere, di continuare quel tipo di vita che lo aveva plasmato, con quello stile che san Benedetto raccomandava da secoli e che si riassume in uno splendido trinomio: «Ora. Labora. Noli contristari», che dovremmo tradurre: “Cura con equilibrio il tuo rapporto con Dio e con il mondo: impegnati! Ma fai tutto con serenità, senza mai scoraggiarti”.

È uno stile di vita che ha segnato la storia della Chiesa e della civiltà europea. In fondo anche gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola si ispirano alla discretio tanto raccomandata da Benedetto, e imparata da Schuster. L’esercizio sapiente dell’impegno, sapendo sempre trovarne o ricordarne il motivo: l’amore che Dio ha per ognuno di noi e quello che attende da noi con il Suo infinito rispetto per la nostra libertà. Il tutto da compiersi con equilibrio, senza farsi frenare dalla delusione, dalle difficoltà. Il giovane monaco lo visse. Ne troviamo mille prove nei suoi scritti: «La speranza fa parte essenziale della Nostra missione, perché Vangelo (…) in italiano significa appunto: lieta novella (…). (Dio) ama troppo il genere umano, perché non converta il male in bene». E ancora: «La santità non consiste tutta nell’austerità dell’osservanza; altrimenti i fachiri ci vincerebbero. È più santo chi più ama. È più santo chi più si dona a Dio. È più santo chi più dimentica se stesso». Credo siano consigli validi anche oggi.

Quelle norme di sapiente equilibrio gli servirono nei suoi 25 anni di episcopato a Milano. Poco più di un mese dopo il suo ingresso come arcivescovo (8 settembre 1929), scoppiò la terribile Crisi del ’29. Poi venne la guerra italiana in Africa ed era in atto la guerra per procura combattuta tra i totalitarismi di allora (bolscevismo, nazismo, fascismo) sulla pelle, sul sangue e sulla fede degli spagnoli, con il massacro di decine di migliaia di uomini e donne, preti e suore e vescovi. Seguì la Seconda guerra mondiale: il sacrificio di 56 milioni di morti e Hiroshima e Nagasaki, che segnarono anche il crollo degli imperi, in particolare quelli inglese e francese, mentre l’imperialismo bolscevico di Stalin durò ancora a lungo, assetato di sangue. La risposta o proposta di Schuster in quel clima fu: «In mezzo ad un’atmosfera cupa d’odio, brilla l’astro dell’amore (…). Dio è amore. Amatevi l’un l’altro». Lo riassunse splendidamente in occasione della Pasqua 1945: «Anche quest’anno noi celebriamo un’altra volta la nostra Pasqua di guerra! (…) Cristo è la nostra Pasqua, e dove è Cristo, è sempre Pasqua, anche se di fuori infuria la guerra, perché il Signore è veramente risorto».

In questa “lotta” per il bene, Schuster non si risparmiò. Dalla sveglia alle 3.30 sino alle 21, quando si ritirava, era infaticabile, con quell’invito famoso, gentile ma fermo: «Appresso! Avanti!». Non smise mai e, a chi gli suggeriva di riposare un poco, rispondeva con le parole di san Carlo: «Per illuminare gli altri una candela deve consumarsi». A una collaboratrice che lo rimproverava per le sue troppe penitenze, si giustificò, dicendo: «Dio è un Dio geloso». Nulla è mai troppo per chi ama.

Da questo amore, la sua attività, che parrebbe incredibile: cinque sinodi diocesani, cinque visite pastorali dell’intera immensa arcidiocesi, facendosi trovare già in ginocchio alla porta della chiesa agli occhi ancora assonnati del sacrestano o del parroco. Ovunque ci fosse bisogno della parola del vescovo, per condannare ogni sopruso, lì egli c’era, come quando Mussolini soppresse l’Azione Cattolica nel maggio 1931 e non a caso la Polizia scrisse nel suo Rapporto segreto: «Nonostante tutte le apparenze (Schuster) è un nemico convinto e irriconciliabile del fascismo. Nessun prelato è più avverso al regime dell’attuale arcivescovo di Milano ed anzi farebbe bene Mussolini a provocarne il suo allontanamento da Milano».

In realtà egli si faceva guidare solo e senza timore dal Vangelo nella difesa degli oppressi e contro ogni barbarie: si pensi al coraggio con cui ottenne che il 14 agosto 1944 fossero rimossi i cadaveri dei partigiani fucilati in Piazzale Loreto. Lo stesso coraggio ebbe, il 29 aprile dell’anno dopo, quando minacciò di andare lui stesso a raccogliere il cadavere di Mussolini appeso bestialmente nella stessa piazza.

Né dovremmo dimenticare l’omelia del 13 novembre 1938, quando condannò le Leggi razziali, con lo stesso coraggio di sant’Ambrogio contro l’imperatore Teodosio: «È nata all’estero e serpeggia un po’ dovunque una specie di eresia (…). È il cosiddetto razzismo. (…) La Chiesa non fa della politica né dell’economia sociale. Ma distinzioni di razze nella Chiesa Cristiana, no: perché Cristo non si può fare a brandelli!». Quelle leggi erano una “eresia”, il che significava autorizzare i cattolici a disobbedire al Duce, ormai dittatore.

Fu profetico non solo sulla fine dei totalitarismi, allora così potenti, ma anche sul futuro della Chiesa. Già nel 1931 diceva: «Solo il Santo può dominare e conquistare il mondo. Concordati, Asse Ecclesiastico, cappe canonicali ed ermellini, non sappiamo quanto ancora resterà di tutta questa bardatura medievale da qui a cinquant’anni. Bene o male che sia, sta il fatto che oggi il mondo capisce ancora don Bosco, don Orione, don Guanella, don Placido che entra nel bosco a sfilarsi i pantaloni per poi consegnarli ad un povero che gli aveva chiesto la carità! (…) Uomini magari di poche parole e di modi sbrigativi, perché la predica più efficace che tenevano era la loro stessa vita. Ebbene, il popolo comprendeva il loro linguaggio che riusciva efficace, mentre invece tante e tante altre prediche lasciano il tempo che trovano».

Dunque il metodo efficace non erano le molte parole, ma la “molta” vita credente e convinta. Fu amico di santi, come Luigi Orione e Giovanni Calabria, condividendo con loro una certezza: «La carità e solo la carità salverà il mondo». Fu suscitatore di santi: introdusse la Causa di beatificazione del cardinale Andrea Carlo Ferrari e di don Serafino Morazzone. E nel suo tempo si formarono tanti “santi”: da Gianna Beretta Molla a don Carlo Gnocchi, don Luigi Monza, Giuseppe Lazzati, Marcello Candia… Un lungo elenco, che ancora non finisce di stupire… e di stimolarci: “Perché non potrei esserlo io?”.

Forse questa “esplosione” di santità si deve anche alla cura che ebbe per la catechesi. Nel suo episcopato la Diocesi crebbe di un milione di abitanti. Per tutti propose senza stancarsi l’importanza dell’Oratorio: «A un parroco che qualche tempo fa mi richiedeva di consiglio, se dovesse por mano alla nuova chiesa parrocchiale o alla fondazione dell’oratorio, senza esitazione ho risposto: “Faccia subito l’oratorio, perché è dall’oratorio che si passa alla chiesa parrocchiale e non viceversa”. Un tempio parrocchiale senza l’oratorio finisce facilmente per rimanere deserto». Anche in questo fu profetico.

C’era anche un modo “concreto” per verificare se la catechesi era stata efficace e aveva dato frutto: lo sbocco dell’impegno nella carità. Bello quello che scrisse ai parroci nel 1939: «Ai giovani, vita di fede, comunioni, catechismi, conferenze eccetera... non bastano. La loro fede ha bisogno dello sbocco della carità cristiana. È soprattutto nelle periodiche visite dei poveri a domicilio, degli infermi negli ospedali, dei carcerati, dei mezzi morti di freddo negli abbaini, nei bassi fondi delle grandi città, che i nostri giovani trovano la realizzazione completa della loro vita cristiana». Sono tante le iniziative, ancora oggi attuali, vive, da non perdere.

Un esempio, fra molti. Quando nel gennaio 1946 lesse sui giornali che nel giorno di Natale tre persone erano morte di freddo, stese la mano a nome di tutti: «La statistica di Milano ci dà migliaia e migliaia di famiglie che non hanno casa, che durante questo rigido inverno sono esposte a mille sofferenze di freddo e di fame. (…) Ora in nome della carità e della giustizia io oso lanciare un appello a quanti possono disporre del superfluo, banchieri, industriali, finanzieri (…), perché vogliano concorrere a quest’opera cristiana di costruire case per quanti ne sono privi». Nacque così la Domus Ambrosiana, tredici palazzi costruiti in periferia con le offerte dei fedeli. Gli appartamenti sarebbero stati assegnati a coppie di sposi novelli o a famiglie bisognose con affitti più bassi di quelli delle case popolari. Furono coinvolti in quest’impresa gli oratori, perché era loro compito: impegnare.

Schuster sollecitava all’impegno dei laici nella parrocchia e nel mondo. Già allora egli parlava dei Consigli Parrocchiali: «Recano un grande vantaggio ai parroci, offrendo loro una visione ed un quadro più completo dello stato della parrocchia e dei suoi bisogni. Cointeressa molte persone, molte famiglie, a sostenere ed appoggiare l’opera del parroco». Accanto ai Consigli Parrocchiali, c’era la cura che egli ebbe per gli Istituti Secolari, forme di vita di uomini e donne che si consacrano a Dio e lo testimoniano nel modo di vivere la loro professione: diversi non per l’abito, ma per il cuore. Sono troppi per citarli tutti, perché è una sorgente ancora oggi gorgogliante e vivace: dall’Istituto di Cristo Re arriveremmo ai Memores Domini. E non finiremmo ancora.

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Vorrei fare mio e riproporre a tutti il suo congedo da questo mondo. Al tramonto del 14 agosto 1954, spossato dalle fatiche, il cardinale era giunto nel Seminario di Venegono Inferiore, per far riposare qualche giorno il suo cuore malandato dallo zelo pastorale, che lo aveva divorato nei 25 anni di episcopato. Fu chiamato al balcone dai canti dei seminaristi, che si erano raccolti sul pendio sottostante l’appartamento arcivescovile e desideravano il suo saluto. Disse loro: «Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione; ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio. Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi: ha paura, invece, della nostra santità».

Pochi giorni dopo, fu la sua salma a essere accompagnata da un impressionante corteo, da Venegono a Milano. Era ed è vero: «Quando passa un Santo, tutti accorrono al suo passaggio».

*Già rettore del Pontificio Seminario Lombardo, è responsabile del Servizio per le Cause dei santi dell’Arcidiocesi di Milano e consultore del Dicastero delle Cause dei santi