La copertina del libro.

La guglia del Duomo di Milano

Luca Doninelli

Giovedì 6 maggio esce in libreria Milano è una cozza, a cura dello scrittore Luca Doninelli. Un viaggio alla scoperta della bellezza di Milano: una bellezza nascosta, da ricercare, proprio come quella di una perla dentro una cozza. Il libro raccoglie i racconti di donne di casa, meridionali emigrati in cerca di lavoro, impiegati di banca... E di tanti giovani scrittori della Scuola di Scrittura Flannery O’Connor (presso il Centro Culturale di Milano) e dell’Università Cattolica di Milano. Attraverso di loro respiriamo la vita di una città in continua trasformazione e, allo stesso tempo, nostalgica del proprio passato. Milano è una cozza è il primo volume della collana "Le meraviglie di Milano", che continuerà a raccontare, con cadenza annuale fino all'Expo 2015, storie, luoghi e cambiamenti di una città che - forse per troppo tempo - ha rinunciato a raccontarsi. Qui di seguito vi offriamo in anteprima il capitolo conclusivo


Do questo titolo alla mia relazione perché quando frequentavo l’università questa frase, «la guglia del Duomo di Milano», veniva usata dal professor Evandro Agazzi per illustrare il concetto di funzione in logica matematica. Tre concetti, come vedete, si connettono tra loro mediante due genitivi: «guglia», «Duomo» e «Milano». La guglia è la guglia del Duomo, e il Duomo è di Milano.
La preposizione connettiva «di» ha a sua volta tre valenze: una possessiva, una generativa e una ontologica. Se ad esempio dico: Questo quadro è di Picasso, io posso intendere questa frase in due modi: posso intendere che il quadro appartiene a Picasso, è di sua proprietà, l’ha comprato lui, fa parte della sua collezione privata; ma posso anche intendere che il quadro è di Picasso perché l’ha dipinto lui. Qui abbiamo una valenza possessiva e una generativa della preposizione «di», a cui si aggiunge una valenza ontologica, più profonda, se quando diciamo questo è un quadro di Picasso intendiamo non solo che l’ha dipinto lui, ma che non è uno dei tanti quadri che ha dipinto, bensì un quadro speciale, poniamo Les demoiselles d’Avignon, quello che lo esprime al meglio, quello che coglie l’aspetto più profondo della natura artistica di Picasso. Perché non è sufficiente aver dipinto un quadro affinché questo quadro sia «nostro», anche se ci chiamiamo Pablo Picasso: occorre anche un po’ di fortuna, l’intervento di una grazia, di una buona stella – come dire: quello che abbiamo di più nostro non è tanto quello che produciamo noi stessi, ma quello che troviamo per una sorta di dono.
Quando dico la guglia del Duomo di Milano intendo questa frase nel primo e nel secondo senso. Ma quando parlo della Grande Guglia devo aggiungere anche il terzo senso: perché non è una guglia tra le altre, ma la guglia più guglia di tutte, la guglia per eccellenza, la prima che tutti guardiamo, sempre, quella che caratterizza maggiormente l’edificio che a sua volta caratterizza – cento volte più di qualunque altro – la nostra città.
Devo ringraziare alcuni amici architetti, e soprattutto uno, Stefano Boeri, perché mi hanno sollecitato a mettere a tema una questione che spesso uno scrittore non tiene nel dovuto conto nella sua complessità: il rapporto tra la forma dello spa zio esteriore e la forma dello spazio interiore. Spesso gli scrittori tendono a ridurre tutta la questione allo spazio interiore creando paesaggi che somigliano in qualche modo al clima alla meteorologia del loro intimo: dal paesaggio dei loro libri deduciamo lo stato della loro interiorità più che da mille in-trospezioni o spiegazioni.
La messa a tema di questo problema obbliga però lo scrittore a un supplemento di complessità e a chiedersi: in che modo lo spazio in cui vivo incide sul mio spazio interiore? Le abitudini mentali che la città o la località in cui vivo inducono in me dipendono strettamente dal mio modo di vivere lo spazio in cui abito: perciò non si tratta solo di dare al mio immaginario una forma corrispondente alla mia interiorità, ma anche di capire la stretta dipendenza che intercorre tra i due spazi, interiore ed esteriore.

Quando io penso al centro di Milano, penso al Duomo, e quando penso al Duomo penso alla Madonnina, che poggia sulla Grande Guglia. Non esiste nulla a Milano che catalizzi gli sguardi di tutti, ma soprattutto di chi ci vive, come questa guglia. Se potessimo contare gli sguardi che si posano su ciascun edificio, parte di edificio, monumento, opera o semplice oggetto della nostra città, su qualsiasi elemento del patrimonio cittadino, io credo che la Grande Guglia del Duomo supererebbe di parecchie lunghezze qualunque altra cosa.
Perché Milano è fatta così, Milano è fatta affinché i nostri occhi salgano verso quel punto. La sua struttura a raggi è fatta perché chi procede verso il centro di Milano guardi quel punto. Tutto lo spazio della città, nonostante i molti rimaneggiamenti, rimodernamenti, bombardamenti, dismissioni eccetera, mantiene questa struttura originaria. Non è più esattamente così, tanto che per ritrovarla è consigliabile studiare la pianta della città, però le tracce restano, le cicatrici di quel disegno ammirevole non si cancellano, e soprattutto noi continuiamo a rapportarci al grande spazio della città come se quella struttura fosse ancora tutta perfettamente funzionante.
I passi, seguendo lo sguardo, si avvicinano a quella meraviglia. La Madonnina è lassù, leggera e scintillante. Poi, una volta giunti, ecco il Duomo tutto intero, la sua potenza ora ci si mostra tutta dopo la leggerezza che ce l’aveva annunciato. Il poeta Clemente Rebora ha ben sintetizzato, in una sua celebre quartina, il sentimento di noi tutti di fronte al Duomo:

Il portentoso Duomo di Milano
non svetta verso il cielo
ma ferma questo in terra in armonia
nel gotico bel di Lombardia.


La caratteristica del Duomo non è di svettare, ma di tirare giù il cielo, di tirarlo in terra. Visto in mezzo alle case, sembra che voglia correre lassù, perché quella che vediamo è solo la guglia che regge la Madonnina. Ma quando ci si va vicino la prospettiva si modifica. I nostri santi sono così – pensiamo a san Carlo Borromeo, o al nostro nuovo santo, don Gnocchi. Milano è così, e anche la sua fede, quando c’è, è così. È tutta gente che ha realizzato il cristianesimo nel concreto delle cose, della terra, sporcandosi sempre le mani.
C’è un albero, il più lombardo tra tutti gli alberi, che esprime bene questo sentimento. Cito ancora Clemente Rebora in una delle sue ultime poesie, Il pioppo:

Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo.
Spasima l’anima in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero.
Dal tronco in rami per foglie s’esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime.
Fermo rimane il tronco del mistero
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.


Il pioppo di cui Rebora ci parla è per la precisione il pioppo cipressino, che somiglia a certe belle donne lombarde alte ma dalle caviglie possenti, un po’ grosse. Donne che comunicano un’idea di eleganza ma anche di forza. Per salire verso l’alto l’albero deve piantarsi in terra: più affonda, più sale. Lo stesso si può dire del nostro Duomo: prima vediamo la sua altezza, poi ci accorgiamo di quanto deve scendere per poter salire così. Non sto parlando delle fondamenta murarie, sto parlando della metafora che un edificio così centrale comunica a chi vive in questa città: l’altezza è una questione di profondità.

Le altre città hanno perlopiù centri molto grandi. Pensiamo a Roma, a Parigi, a Londra. Esistono però città in cui il centro coincide con una cosa sola. Un esempio è Siena, un altro – il più clamoroso – è Milano. Il centro di Milano è un punto, non ha quasi spazio, e al tempo stesso è tutta la città, e il suo tetto si stende come un immenso telo appoggiato sul filo, sugli infiniti fili dei nostri sguardi che salgono fin lassù.
Il Duomo è il mediatore tra quel punto – la Madonnina, o meglio il punto ancora più a-spaziale di cui la Madonnina è segno, rinvio (la Madonna è per eccellenza colei che rinvia, i pittori la ritraggono mentre mostra Gesù, indicandolo spesso col dito) – il Duomo, dicevo, è il mediatore tra quel punto e il velo invisibile che si stende su tutta la città. Grande come edificio ma ancor più grande perché la sua eccezionalità ridefinisce tutti gli altri spazi della città. Nel momento in cui il Duomo s’insediò a Milano, tutti gli spazi che componevano la città furono costretti a ridefinirsi in rapporto con esso.
Il Duomo volle essere fin dal primo istante la Casa dei milanesi. Tutta Milano è come dentro il Duomo, e io credo che non esista nessun’altra città al mondo capace di incarnare un’idea di spazio simile a questa.
A Milano si è sempre dentro qualcosa. Questo l’ho scritto già in un mio libro, ma mi piace ripeterlo qui: è una città fatta di interni, di dentri. La gente non sta «fuori» nel senso in cui può star «fuori» a Roma, o a Napoli, o a Palermo. Non si passeggia per Milano, e se uno va a zonzo per Milano è segno che è un po’ matto – mentre andare a zonzo per Roma è obbligatorio se la si vuole cominciare a conoscere per davvero. A Milano si passa da un interno a un altro interno, si passa da dentro la casa a dentro la macchina, da dentro la macchina a dentro l’ufficio, e così via, e il «fuori» è solo un intervallo, un passaggio. Milano è una città-utero, una città femmina, una città segreta. Le sue cose più belle sono spesso poco visibili: i suoi cortili, gli interni delle sue case. A questa mia vecchia osservazione si aggiunge, qui, un accento di sacralità.
Ma ciò che fa casa più di tutte le case, ciò che fa interiorità più di ogni intimità è questo punto di convergenza di tutte le linee dello spazio cittadino. È questa convergenza a fare «casa», e a fare della parola «casa» una parola speciale, a Milano.

Per uno scrittore il Duomo è anche una metafora. I tanti edifici sono come tanti racconti, più o meno lunghi. Il Duomo è il romanzo. Il più milanese tra gli scrittori, Alessandro Manzoni, scrisse un solo romanzo, che – a prescindere da ogni valutazione estetica – fu, nella sua opera, come la nostra cattedrale in mezzo alle case e ai palazzi. Il romanzo può essere meno bello dei racconti, ma la sua forza è unica. Non è semplicemente una narrazione un po’ più lunga di altre narrazioni chiamate «racconti», è qualcosa di nuovo, è una difformità, è qualcosa che accade di schianto, spesso quasi all’insaputa di chi lo sta facendo: è qualcosa che costringerà a ridefinire tutto il resto, tutte le altre opere dello stesso autore o della stessa epoca. È una novità che costringe tutto l’esistente a riposizionarsi, a ridefinirsi. I Promessi Sposi getta una nuova luce sull’Adelchi, sul Carmagnola, sul Cinque Maggio, così come la getta anche su ciò che verrà dopo, sia nell’opera manzoniana (penso al suo capolavoro assoluto, la Colonna infame) sia nell’opera degli scrittori che verranno.
Anch’io, che vengo chiamato – a torto – romanziere, ricevo ogni giorno, quando guardo la Grande Guglia su cui si issa la Madonnina, l’impulso a spingermi oltre, a tentare il nuovo, a non accontentarmi di quello che so già fare, a scommettere su me stesso fino all’ultimo centesimo fino a realizzare il mio romanzo, o l’opera che lo sostituirà – qualcosa in cui consumarmi tutto, perché noi, e soprattutto noi milanesi, siamo fatti per dare più che per avere.
Ma il Duomo ci ricorda anche che, a differenza delle case e dei palazzi, una costruzione così straordinaria è sempre in qualche modo un’opera corale. Tutti i milanesi parteciparono all’edificazione del nostro Duomo. Il nostro Duomo ci ricorda che solo un tessuto urbano compatto non dal punto di vista etnico (Milano è sempre stata una città multietnica, Milano è sempre stata edificata da chi veniva da fuori e diventava milanese) ma da quello degli obiettivi e dei progetti può realizzare opere grandi – dove con «grandi» non intendo le dimensioni e nemmeno la sempre opinabile gradevolezza bensì opere che noi milanesi possiamo chiamare nostre, ossia portatrici di qualcosa che ci appartiene intimamente, che fa parte della nostra stessa carne, come quando mia moglie, osservando certi difetti dei nostri figli, scuote la testa, mi guarda e mi fa: «Sono proprio figli tuoi!». Il Duomo è grande perché è «nostro» e perché chiunque diventi milanese – sia tedesco, senegalese, filippino, armeno, cinese – può dire «nostro» allo stesso modo di chi è nato qui.
Ma perché questo pensiero possa essere vissuto davvero e non restare soltanto l’ombra di un sogno è necessario che Milano recuperi questa attitudine alla grandezza, alla progettualità comune, alla condivisione del destino della città. È necessario che noi milanesi torniamo al centro della storia presente (perché la storia o è nel presente o il suo passato si polverizza). Una mostra di Monet o di Hopper è la benvenuta, ma si tratta di mera importazione di qualcosa che non ci appartiene, e che può soddisfare il nostro privato bisogno di arte. Questo va benissimo. Ma una città acquista respiro mondiale solo se pone quello che lei stessa fa di fronte al mondo.
Essere protagonisti di un progetto grande non significa necessariamente fare grandi cose. La grandezza di Milano raccontata nell’insuperabile libro di Bonvesin de la Riva è una grandezza di acqua potabile, di maniscalchi, di carità quotidiana, di frutta e di verdura. Renzo e Lucia non hanno fatto grandi cose, e quello che hanno fatto avrebbero preferito non farlo. Avrebbero preferito sposarsi, avere dei bambini e fare il lavoro di sempre, vivendo come sempre. Però avevano il sentimento vivo della loro dignità, di essere parte di una
storia importante, una storia che non comincia con Prodi per finire a Berlusconi, ma che comincia da Adamo e finirà col Giudizio Universale. Non è un problema di cose da fare, ma di prospettive. Milano ha prodotto il Duomo perché ha la capacità di produrre prospettive, idee, innovazione.
Oggi è facile passare davanti al Duomo e non guardarlo nemmeno. La dimenticanza del nome e della figura dell’architetto Croce, che disegnò la sua mirabile Grande Guglia, è sintomo di una dimenticanza più grande. Il Duomo è come una faccia, è come la faccia di un uomo che guarda il destino negli occhi, e non ha paura. Noi temiamo il suo sguardo, la grandezza che porta dentro di sé, la grandezza degli uomini che lo edificarono ci mette un po’ di soggezione. Ci sentiamo più piccoli, oppure liquidiamo la cosa con un po’ di scetticismo, pensando che quegli uomini, alla fine, erano dei visionari, o degli illusi. Ma al fondo di noi stessi sappiamo che non è così.
Dobbiamo poter tornare a guardare bene in faccia il nostro Duomo, rinnovando quella incredibile forza progettuale nella quale Milano non ha avuto pari in tutta la storia. Dobbiamo renderci conto della città straordinaria in cui viviamo, della sua unicità, e dei compiti che – indigeni o no, italiani o no, credenti o no, di destra o di sinistra eccetera eccetera – l’essere milanesi comporta.

Luca Doninelli (a cura di)
Milano è una cozza
Guerini e Associati
pp. 179 - € 14,50