Krzysztof Zanussi

Meeting. Zanussi. L'uomo di fronte a sé

Il regista polacco, uno dei maestri del cinema europeo, sarà a Rimini il 20 agosto per presentare Eter, il suo ultimo film. Litterae Communionis , già nel 1986, aveva presentato i grandi temi della sua opera
Roberto Copello

«Io non credo che l’arte possa sostituire la vita, che le esperienze esistenziali siano in grado di sostituire le esperienze reali. L’arte può spingere l’uomo ad agire (…) ma soltanto quel fatto reale, quel concreto fatto di vita che è stato da lei provocato significherà che l’uomo è diventato migliore»

Dostoevskij non fu un uomo eccessivamente nobile, ma fu un grande moralista. Anche di Camus si può dire lo stesso… Ma forse ciò per cui li stimiamo non è la loro vita, non la bellezza del loro comportamento, ma solo la forza della loro nostalgia per l’ideale, per il bene morale, la nostalgia per qualcosa di meglio della loro vita. Un artista diviene tale nel momento in cui perde qualcosa nella vita. Cioè quando lo iato tra desiderio e possibilità diventa tanto grande che le chances per realizzare l’ideale svaniscono
Il coraggio di un artista consiste nel dire cose che non sono ancora riconosciute dal pubblico, provocando un processo di scoperta, assumendosi dei rischi, e non nel dire cose che hanno già un diritto di cittadinanza in uno dei tanti ghetti della cultura.

A Krzysztof Zanussi forse sarebbe piaciuto vivere nel Rinascimento, in quell’epoca leonardesca dove arte e scienza non erano ancora state scisse da ventate di razionalismo cartesiano e illuminista. Oppure sarebbe piaciuto vivere ai tempi dei Padri della Chiesa, quegli anni in cui sant’Agostino insegnava che cuore e ragione dell’uomo formano un tutt’uno impossibile da separare. Ovviamente il regista polacco, nato invece poche settimane prima dell’invasione nazista della Polonia e cresciuto in un Paese comunista del XX secolo, difficilmente ammetterebbe di nutrire simili nostalgie, conscio com’è che ciascuno al mondo deve affrontare responsabilmente le situazioni che gli vengono date da vivere pur senza nulla aver fatto per scegliersele.

''Vita di famiglia'', 1971

Se c’è una costante che attraversa la nutrita filmografia di Zanussi, è proprio la convinzione che il destino individuale va accettato sempre e comunque, anche quando dovesse riservare prove dure e dolorose. Nessuno è artefice del proprio destino, sostiene Zanussi, e nessuno d’altro canto ci ha garantito che la nostra vita debba essere felice: scegliere il bene non significa automaticamente avere il diritto di godere materialmente una ricompensa della propria probità morale.
«Il più onesto degli uomini non è al riparo dai capricci della fortuna», dice Zanussi. L’uomo vive nel mondo, ma non è del mondo: se ha diritto a un premio, questo - per Zanussi - potrà essere più facilmente «l’eternità» che non il «centuplo quaggiù».

Forse anche per questa ragione il cinema di Zanussi è stato spesso classificato come «pessimistico». Portato com’è a porre in salutare crisi le proprie certezze, il regista rifiuta decisamente questa definizione (così come le molte altre «etichette» che di volta in volta i critici occidentali gli hanno appioppato: «spiritualista», «conservatore», «ambiguo», «cattolico», persino «ateo»…). «Il film pessimista - ha detto a proposito di Constans - mostra che non ci sono più valori, che resta solo il caos. Anch’io a volte ho detto cose pessimiste nei miei film. Ma se c’è un elemento di speranza, già divento ottimista».

Ecco spiegato perché, contrariamente alle apparenze, vadano ritenuti «ottimisti» i finali di tutti quei film zanussiani che pongono l’uomo di fronte a sé, al suo destino, alla necessità di scelte responsabili per la vita propria e degli altri: l’accettazione dei propri limiti da parte di Franciszek in Illuminazione; la decisione di Marta che, in Bilancio trimestrale, rinuncia a un’avventura sentimentale e sceglie di restare con il mediocre marito; il cornicione che, in Constans, Witold fa cadere verso un bambino che gioca a palla; l’apparente follia di Augustin che, in Imperativo, si taglia un dito per poter espiare il suo peccato; il ritrovarsi solo e abbandonato da tutti, con un figlio piccolissimo, e il dover dunque «ricominciare da capo» da parte di Hubert nel recente Il potere del male. E così via...

''Illuminazione'', 1972

Già abbiamo iniziato a introdurre alcune delle parole indispensabili per una comprensione del cinema di Zanussi. Meglio sarà strutturarle in coppie oppositive che restituiscano anche il senso di estrema apertura con cui il regista indaga, dialetticamente, i nodi ossessivi che gli stanno a cuore. Solo così si afferrerà come quella sua tipica “ambiguità”, che a torto molti critici hanno equiparato alla distruttiva perdita di certezze tipica di molti autori occidentali, sia in realtà la più onesta delle maniere per ricercare una risposta ai quesiti fondamentali dell’esistenza, senza preconcetti e senza ricette già confezionate. Profeta di un’ambiguità fondata su certezze ancora da acquisire, Zanussi (profondamente convinto dell’immoralità di ogni arte didattica di tipo brechtiano, quale il realismo socialista ha più volte tentato di imporre oltre Cortina) vuol lasciare sempre allo spettatore il compito di decidere, la responsabilità di scegliere.

Estremamente contrario a Rousseau e alla post-sessantottesca esaltazione di una spontaneità senza limiti, Zanussi è invece un fermo sostenitore della cultura, intesa come sforzo individuale e cosciente, come accettazione delle coordinate che tracciano lo spazio in cui dobbiamo vivere. È questo un messaggio controcorrente nella società e nel cinema odierni, dove la libertà sembra piuttosto coincidere con la liberazione di ogni istinto e da ogni convenzione. Zanussi ha analizzato questo tema, fra l’altro, nel suo più noto film “sociale”, Colori mimetici, acerba denuncia della corruzione e di ogni forma di compromesso, e nel più riuscito dei suoi non molti film “storici”, Sentieri nella notte, dove vengono messi a confronto un’aristocratica signora polacca e un raffinato ufficiale delle SS.
In Constans si trova poi un significativo esempio di quanto Zanussi non ritenga trapiantabile altrove una cultura locale (ed è pure l’occasione per schernire il facile spiritualismo degli occidentali figli del benessere): Witold, in India per lavoro, incontra un gruppo di hippies americani con i capelli rasati e vestiti all’indiana. Si scontra verbalmente con loro: «È una simulazione, la vostra». «No, sei tu convenzionale». «Io sono nato altrove e non lo posso cambiare». «Perché? Volere è potere». «No, l’uomo è limitato. E voi fate così perché avete in tasca i biglietti di ritorno per gli Usa. Siete un vivo scherno della povertà di questi indiani, perché loro non l’hanno scelta».

Per Zanussi la razionalità conta dunque più della naturalità istintiva, ma occorre comunque sempre fare i conti con il grappolo di condizionamenti (storici e sociali così come biologici e genetici) che influenzano la vita individuale. È una preoccupazione che al regista deriva probabilmente dalla sua formazione scientifica e filosofica. Ed è in sostanza il problema della scelta: l’uomo, si chiede Zanussi, è libero di scegliere o è determinato dall’ambiente in cui vive e dalla propria eredità genetica? Il libero arbitrio si scontra con la constatazione di un inevitabile limite umano. Scoprire quale sia il margine della scelta individuale è preoccupazione fondamentale di Zanussi. In Vita di famiglia per esempio l’ingegnere Wit (abbreviazione di Witold), tornato dopo anni alla casa paterna, scopre come sia stato inutile il suo tentativo di recidere ogni legame con le proprie radici. Nella sequenza finale Wit troverà sul suo volto, riflesso in un finestrino del treno, il medesimo tic che aveva riscontrato sul volto del padre. D’altronde proprio quest’ultimo aveva drammaticamente messo Wit di fronte alla necessità di prendere coscienza del proprio limite: «C’è una misura per ognuno - gli aveva detto - e non sarai mai più di quello che sei». Cioè, non potrai mai essere più geniale (e non dimentichiamo la connotazione ironica del diminutivo Wit, termine che in inglese significa “intelligenza”…) di quanto non te lo permetta il tuo patrimonio genetico, storico, di classe sociale; potrai cercare di migliorarti, ma sempre entro i limiti dettati da questi condizionamenti.

Un’altra dimostrazione di tale teoria è nella sequenza finale di Sentieri nella notte: la ragazza che distrugge nel caminetto una lettera ancora sigillata si comporta esattamente come avevano fatto molti decenni prima la nonna e la mamma, che pur lei non ha conosciuto. Così anche il Witold di Constans è freddoloso e “chiuso” quanto il padre, alpinista morto molti anni prima in Himalaya.

Il motivo del condizionamento investe poi anche la sfera della fisicità. Zanussi non accetta la separazione netta di corpo e spirito: la sofferenza dell’uno implica la sofferenza dell’altro. Ecco il perché di tanto spazio alla descrizione del limite fisico dei suoi protagonisti, come il Franciszek di Illuminazione o Witold e Stefan in Constans. Ed ecco spiegata la condanna di quella medicina che pretende di eliminare il dolore dalla vita umana, pur sapendo di non poter sconfiggere la morte e di non poterne spiegare il mistero. La madre di Witold, in Constans, sul letto di morte rifiuta gli analgesici che potrebbero lenirle il dolore. «Voglio soffrire in nome Tuo», sussurra con la poca forza che le resta (e purtroppo i doppiatori italiani hanno trasformato la spiegazione religiosa in un banale «È meglio così»).

Spesso accade che la scienza, quando pretenda di essere la più alta forma di conoscenza, cerchi di manipolare la coscienza dell’individuo. Ciò per Zanussi è inaccettabile. In Illuminazione fermissima è la sua condanna dell’elettrochoc, di certi esperimenti con droghe, dell’accanimento terapeutico, dell’ingegneria genetica. La polemica contro un certo modo di intendere la medicina - in Constans come già in Illuminazione e in Spirale -abbraccia in realtà la concezione che l’uomo d’oggi ha della vita e della morte. Quest’ultima, nella società contemporanea, è divenuta fenomeno inaccettabile e da esorcizzare con qualsiasi mezzo, all’Est come all’Ovest. In Illuminazione Franciszek getta nel lavandino il recipiente contenente il cervello di un amico morto, quasi a gridare la propria rabbia nei confronti delle pretese della scienza, ma pure volendo emblematicamente mostrare la fragilità dell’organo deputato alla conoscenza. Il tema della morte ricorre insistente in molti film di Zanussi, ed è il luogo dell’estremo confronto con se stessi, quando non è più possibile mentire.

Saggezza ed intelligenza, cuore e ragione. Intelligenza e ragione sono strumenti limitati per afferrare la verità. Al di là di una certa soglia non si può andare, a meno che non intervenga l’agostiniana “illuminazione” che dà il titolo all’omonimo film. Si tratta di quel momento di contatto diretto con la verità che può essere raggiunto solo tramite la purezza del cuore. È un’esperienza privilegiata che può toccare anche a chi non abbia particolari doti intellettuali. Forse, per Zanussi, solo l’illuminazione permette di elevarsi davvero sopra il condizionamento individuale, raggiungendo così la “saggezza”. Ma occorre innanzitutto confrontarsi con se stessi, scavare dentro di sé, scalare le vette della propria coscienza. Zanussi giunge a questa convinzione attraverso l’asse S.Agostino-Husserl-Ingarden, i suoi maestri filosofi. E lo mostra metaforicamente con la predilezione per le montagne e per i monasteri, luoghi (autobiografici) dove ci si può “elevare”.

''Constans'', 1980

Fuggire il mondo può, talora, valere più di un’anonima presenza in mezzo ad esso: l’opzione ascetica coincide con la strada dell’estremo impegno etico, svincolato dai fatti contingenti. Spesso i protagonisti zanussiani ammirano la capacità che i monaci hanno di stare faccia a faccia con la verità, dominando la «bestia» che alberga in ogni cuore umano. L’intervento diabolico nel mondo è tema che affascina soprattutto l’ultimo Zanussi, quello di Imperativo e de Il potere del male, anche se già aveva fatto la sua comparsa in film come Colori mimetici e Constans, sotto forma di capacità che l’“uomo sociale” ha di lasciarsi corrompere.

La strada della presa di coscienza porta all’assunzione delle responsabilità individuali: è questo il grande messaggio di tutta l’opera di Zanussi. Sul fronte opposto si colloca l’assai più “facile” disponibilità a sottostare alle tentazioni del mondo, ad adeguarsi ai compromessi con la propria coscienza. Spesso si è detto che Zanussi sa mostrare impietosamente la corruzione all’interno della società polacca, attraverso le meschine figure di certi burocrati. Eppure l’attenzione del regista va piuttosto alla lotta contro la corruzione dei propri cuori, con una disponibilità umile e non astiosa ad accettare ciò che ci riserva la vita: al limite, come in Constans, con una “costanza” morale tale da affrontare le difficili prove che nella vita del singolo possono ripetersi con l’assiduità di una “costante” matematica (ennesimo caso di ambivalenza del titolo).

LEGGI ANCHE - Verso il Meeting. Gli affetti della mente

«Con quanta facilità il destino può gettare all’aria i tuoi piani!» dice Jan, in Struttura di cristallo. Zanussi è sempre affascinato dall’irruzione dell’imprevisto nella quotidianità, dall’impossibilità di prevedere quel che ci accadrà e in che modo la nostra vita ne sarà influenzata. Neppure la scienza possiede la chiave per afferrare le ragioni dell’ordine naturale: «Statisticamente nella fisica molecolare si sa quale percentuale di atomi può andare a destra e quale a sinistra», dice Zanussi: «Ma forse che l’atomo è libero di scegliere? E quale atomo va a sinistra o a destra? E perché? Questo fenomeno statistico mi sembra che si ritrovi identico sul piano umano. Chiamarlo Provvidenza o caso dipende dal presupposto mentale di ciascuno. Il caso è una forza cieca. La Provvidenza è una forza lucida». Molte volte Zanussi ha mostrato protagonisti dei suoi film intenti a sfidare la sorte e la statistica con giochi di tipo matematico (lotto, dadi, roulette): ciò che importa non è vedere se vincono o perdono, quanto mostrare la debolezza delle teorie scientifiche deterministiche, fondate su un meccanismo di causa-effetto.

Queste brevi note non possono certo esaurire l’estrema complessità e varietà delle problematiche zanussiane. Interessante sarebbe indagare anche altri temi tutt’altro che secondari in un autore poco noto presso il grande pubblico e del quale pochissime opere si sono viste in Italia. Bisognerebbe allora parlare di amore, di rapporti fra i sessi, di certe creature femminili dostoevskiane; e poi ancora del tema della comunicazione, di confronto generazionale, guerra, spiritualità ortodossa, mestiere dell’attore, ricerca scientifica, ruolo dell’arte e degli intellettuali in una società contemporanea. E sarebbe pure indispensabile soffermarsi sulle caratteristiche stilistiche di un cinema che, come pochi altri, adotta una forma innovativa rigorosa almeno quanto gli argomenti affrontati.

(da Litterae Communionis, settembre 1986)