«Non c’era confine, in quella luce, tra uomo e uomo»

Il 5 marzo di cent'anni fa nasceva Pier Paolo Pasolini. «In questo momento sono apocalittico, cioè vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze». Eppure scrive fino ai suoi ultimi giorni, non tace rassegnato. Perché?
Simone Invernizzi

«Per un certo tempo, da ragazzo ho creduto nella rivoluzione (...). Adesso comincio a crederci un po’ meno. In questo momento sono apocalittico, cioè vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze, quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro».
Così Pier Paolo Pasolini, intervistato da Enzo Biagi nel 1971, risponde alla domanda "che mondo sogna?". E prosegue, rincarando la dose: «La parola speranza è cancellata completamente dal mio vocabolario».

Negli ultimi anni della sua vita – morirà il 2 novembre 1975 – Pasolini appare sempre più cupo e disilluso. Vede davanti a sé i segni di una "mutazione antropologica" che, come una malattia mortale, si abbatte sull’Italia, uscita dal boom economico più ricca, ma svuotata, senz’anima.
«Camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla», scrive negli Scritti corsari, libro del 1975 che raccoglie alcuni articoli giornalistici. È un vero e proprio "genocidio culturale" che riguarda soprattutto i giovani, ognuno dei quali «sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero». Si tratta però di una falsa uguaglianza, esteriore e non interiore, costruita attorno a forme prestabilite e modelli di vita imposti dal nuovo Potere della civiltà dei consumi, attraverso la violenza omologante della propaganda televisiva e della moda: i volti sono più tristi, carichi di angoscia, e «mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza» (Scritti corsari, 11 luglio 1974).

Sono pagine citatissime, che sentiremo più volte in questo anno in cui si celebra il centenario della nascita – 5 marzo 1922 – di uno dei più grandi intellettuali italiani. Pasolini è tra i primi a denunciare le conseguenze disumanizzanti del progresso, la violenza silenziosa dell’«ideologia edonistica» e la sua tolleranza repressiva, già teorizzata da Marcuse. Sono pagine attuali, perché la globalizzazione non ha fatto altro che esasperare queste dinamiche, e perché la violenza dell’ideologia oggi si esprime nei modi più tragici che vediamo.

Pasolini è senza speranza, eppure continua a scrivere, fino ai suoi ultimi giorni. Non tace rassegnato. Perché? Come riesce a denunciare l’omologazione senza esserne travolto? Cosa gli permette di indicare ciò che nessuno sembra vedere? E di sentire con dolore ciò che tutti sembrano accettare? Di certo non una ideologia, l’appartenenza a una chiesa o a un partito, perché lui, paragonandosi a san Paolo, si descrive così: «Io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa (...). Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio» (Lettera a don Giovanni Rossi, 27 dicembre 1964, in Lettere 1955-1975).

«Io sono da sempre caduto da cavallo»: la vita di Pasolini è percorsa da una inquietudine lacerante, da un sentirsi in esilio, perennemente «senza dimora», come confessa nel visionario Poema per un verso di Shakespeare, in maiuscolo quasi a volerlo urlare:

SE LA CHIESA DI DIO È UNA CASA CHIUSA DAL DI DENTRO
E LUI SOLO HA LE CHIAVI, ANCH’IO
SONO VISSUTO IN UNA CASA CHIUSA DALL’INTERNO:
LA CASA DELLA RAGIONE SORELLA DELLA PIETÀ. Ho aperto
la porta, e ne sono uscito... Lì davanti ora c’è quella
maledetta casa di Dio chiusa dal di dentro,
a darmi uno sgradevole senso di nausea,
e, dietro, la noiosa Storia in cui potrei rientrare.
E invece, senza dimora – aaaaah, adesso urlo, AAAAAAAH...

È una solitudine esistenziale tratteggiata splendidamente in una pagina de La Divina Mimesis, riscrittura della Commedia dantesca rimasta incompiuta. Nel secondo canto Pasolini-Dante avanza in una periferia cittadina, «dove la luce della sera calava come un temporale»:

«Non c’era confine, in quella luce, tra uomo e uomo, tra coloro che laggiù negli stupendi, e umili, regni della vita, pianura, borgate, città si lasciavano andare al trionfo dell’esserci (...). Solo io ero fuori da tanta gloria, da tanta malinconia. E una punta infuocata di lacrime mi incideva il petto di un dolore che si ripeteva uguale dagli anni più lontani della vita. Solo io, segnato da un confine: sproporzione, incredibile, tra questo piccolo me e tutto il resto del mondo, così grande, inesauribile anche nella nostalgia! (La Divina Mimesis)

Ma proprio la «sproporzione, incredibile tra questo piccolo me e tutto il resto del mondo» è ciò che plasma lo sguardo del poeta Pasolini sulle cose e sulle persone, tanto amate e tanto irraggiungibili. I suoi occhi, intrisi di nostalgia, vedono più a fondo, oltre l’apparenza. «Vedo sempre le cose come un po’ miracolose», confessa a Biagi nell’intervista citata, «ho una visione, in maniera sempre informe, non confessionale, ma in un certo qual modo religiosa del mondo»; si tratta di «una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la profondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose» (Pasolini rilegge Pasolini).

Da questo sguardo "religioso" sgorga il giudizio acuto, ma così carico di pietà, degli Scritti corsari. È Pasolini stesso a rivelarlo: «Per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla» (Scritti corsari, 1 febbraio 1975) e, saremmo tentati di aggiungere, fare i conti con quella «punta infuocata di lacrime» che incide il petto. Il "cuore" si ribella ai meccanismi apparentemente inarrestabili del Potere. È questo ciò che permette a Pasolini di avvertire la tragedia del consumismo non con il distacco dell’intellettuale, ma "sulla propria pelle".

«Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere», che corrompe i rapporti e genera violenza. Infatti, cosa rende attuabili in concreto le stragi politiche, dopo che sono state freddamente concepite? «È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria».
E cosa spiega il fenomeno della nuova criminalità di cui sono piene le cronache dei giornali? «È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo». Per questo, conclude Pasolini, «penso che – senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica – non bisogna aver più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore» (Scritti corsari, 1 marzo 1975).