Franz Kafka. Cercatore di felicità

A cent’anni dalla morte dello scrittore boemo. L’inesauribile slancio verso il mistero e i bagliori di speranza di un uomo che aveva il coraggio di non accontentarsi (anticipazione da "Tracce" di giugno)
Andrea Fazioli

Nel 1909 il giovane Franz Kafka passò le vacanze in Italia. In quell’occasione andò a Brescia con due amici per assistere alla settimana aviatoria. Lo scrittore si entusiasmò a guardare il cielo. Proprio lui, il malinconico, il cupo e disperato Kafka, cercava impaziente lo scintillio degli aeroplani, seguendo con gli occhi un apparecchio «a volo sopra la pianura che si allarga verso i boschi lontani». Nelle pagine scritte su questo evento c’è tutta l’allegria di un ragazzo che assiste a qualcosa di nuovo. E lo scrittore cupo e malinconico? C’è anche quello: «Noi invece siamo respinti quaggiù, ridotti a nulla, e osserviamo quest’uomo». Kafka non si può sezionare, non si può recintare: in lui convivono lo slancio verso l’ignoto e il ripiegamento nei propri nascondigli, l’ironia e la tristezza, l’«inquietudine del cuore» e «lo scrivere come forma di preghiera» (Frammenti, anni Venti).

Nato a Praga in una famiglia di commercianti ebrei, Franz Kafka (1883-1924) maturò in un’epoca di profonde mutazioni, in cui la capitale ceca era un fermento di avanguardie artistiche e culturali. Nella sua opera si rispecchia sia la vitalità dell’ambiente intellettuale, sia la sofferenza nel rapporto con la famiglia, in particolare con il padre. Nel 1912 Kafka annota che «la più diffusa personalità degli scrittori» consiste «nel nascondere il proprio lato brutto». Di certo lui non cadde mai in questa tentazione. Anzi, in ogni suo testo si mette a nudo senza concessioni, senza tregua: «Voglio che ogni giorno ci sia almeno un rigo puntato contro di me, come oggi si puntano i cannocchiali contro la cometa» (Diari, 1910).

È difficile scrivere di lui, perché Kafka mi prende sempre alla sprovvista. Da dove cominciare? Dai romanzi come Il processo o Il castello? Dal suo racconto più celebre, La metamorfosi, nel quale narra di un uomo che un mattino si sveglia nel corpo di un grosso scarafaggio e della sua discesa nell’abiezione? O dalla terribile Lettera al padre, che narra la stessa vicenda fuori dalla metafora? Ho approfittato di una breve vacanza per immergermi nell’opera di Kafka, da mattina a sera. Alla fine avevo la sensazione di avere percorso un sentiero di montagna insieme a un caro amico, e di averlo più volte osservato mentre stava in bilico sull’orlo di un precipizio. Spaventato, mi chiedevo: ma come fa? Poi mi rendevo conto che anch’io ero di fianco a lui, sopra quelle rocce taglienti.

In Kafka appaiono due dimensioni dell’essere. Per chiarirle a me stesso, le ho definite a partire dai racconti La tana (Der Bau, 1923-24) e La finestrella (Das Gassenfenster, 1906-09). Il primo parla di un “io” dall’imprecisata natura bestiale che scava un’immensa, labirintica tana nella terra, con mille difese e scorte di cibo. Un giorno sente un «sibilo lontano», un segno «quasi impercettibile». Il protagonista tenta di sminuire il fatto, di darsi delle risposte rassicuranti. Ma presto è colto dalla paura: «Ciò che avviene, è soltanto una cosa che avrei dovuto temere sempre, contro la quale avrei sempre dovuto prendere provvedimenti: qualcuno, cioè, si avvicina!». Una presenza nuova s’insinua, giorno dopo giorno, come un richiamo che giunga nelle profondità di un io che si trincera.

Nel racconto La finestrella (Das Gassenfenster) questo processo si manifesta come un moto opposto, cioè dall’interno all’esterno. Kafka scrive così: «Chi vive abbandonato e pur vorrebbe ogni tanto mantenere in qualche modo un rapporto col prossimo, chi, tenendo presente i mutamenti della giornata, del tempo, delle relazioni professionali e d’altri simili cose vuol vedere comunque un qualsiasi braccio, a cui potersi attaccare – non potrà fare a meno, per molto tempo, di una finestrella. E anche se proprio non cercasse niente e si avviasse verso il davanzale soltanto come un uomo stanco che leva continuamente gli occhi dal pubblico al cielo, e non volesse e se ne stesse con la testa un po’ spostato indietro, pure giù i cavalli lo trascinerebbero con sé nella sequenza delle vetture e del fracasso e così finalmente verso la concordia umana».

Questo levare gli occhi «dal pubblico al cielo» non è senza significato, così non lo sono i «cavalli» e le «vetture» che accordano all’«uomo stanco» un momento di armonia. Nel Diario del 1921 troviamo un pensiero simile: «Si può benissimo pensare che lo splendore della vita sia pronto intorno a ciascuno di noi e in tutta la sua pienezza, ma velato, nel profondo, indivisibile, lontanissimo. È però non ostile, non riluttante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, col giusto nome, esso si manifesta. Questa è la natura della magia che non crea, ma chiama».

Chi è questo che chiama, che viene dall’esterno? Un oscuro nemico o «lo splendore della vita»? Kafka s’interroga senza posa, fra momenti di ripiego e impulsi di speranza. Un modo per avvicinarlo è partire dai diari, dai frammenti e dai Quaderni in ottavo (è il nome dei taccuini sui quali gli studenti annotavano liste di vocaboli). Nel respiro breve, spezzato, percepiamo che Kafka è con noi sul sentiero di montagna e che, senza posa, ci esorta a non dimenticare l’abisso.

«Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via». Questa frase, tratta dai Quaderni in ottavo, esprime bene l’enigma di Kafka. Don Giussani, che la citava spesso, sottolinea come ogni forma di «religiosità naturale» sia «protesa a riconoscere l’esistenza di un quid ultimo, di una realtà ultima», di un «ignoto» celato «ai margini della realtà che l’occhio abbraccia, che il cuore sente, che la mente immagina». Kafka non cessa d’indagare la possibilità di questa apertura, arrivando a riconoscere la positività insita nell’atto stesso di partecipare al mondo: «Il semplice fatto che viviamo ha un valore di fede inesauribile». Più volte l’autore ceco pone se stesso nella dimensione dell’attesa e del mistero. Questo accade anche nei Dialoghi con Kafka, dove lo scrittore e musicista Gustav Janouch (1903-1968) trascrive alcune conversazioni avvenute nel 1920. Ne esce un ritratto emblematico, per esempio quando Kafka dichiara di essere un «aspirante alla grazia» o quando dice che ogni poeta è un «cercatore di felicità».

LEGGI ANCHE - Un'Europa da costruire "cuore a cuore"

Uno specialista di Kafka, il critico Italo Alighiero Chiusano, lo definiva addirittura «uno spirito mistico», in senso laico ma a partire dall’incontro fra l’eredità ebraica e quella cristiana: infatti egli «getta continuamente sul volto di Dio (non per negarlo, ma per avvicinarlo il più possibile) l’ombra sconcertante del nulla» (I. Alighiero Chiusano, Un’ilare e severa luce di libertà). Sempre nei Quaderni in ottavo, Kafka esprime gli estremi della sua poetica: «L’uomo in estasi e quello che annega sollevano entrambi le braccia. Il primo attesta concordia, il secondo contrasto con gli elementi». Ecco di nuovo l’oscillazione fra il buio della tana e lo squarcio di luce della finestrella.

Nei Diari i riferimenti all’attualità – si pensi alla Prima guerra mondiale – sono scarni. La grandezza di Kafka sta anche in questo: nei suoi testi si esprime la condizione umana in maniera assoluta; la storia poi, fino ai nostri giorni, ha confermato la sua visione quasi profetica (anche nel presagire i totalitarismi e l’alienazione dell’uomo contemporaneo). A questo si aggiunge l’intuizione che ogni forma di salvezza non può prescindere dall’«umiltà»: essa infatti dona a ciascuno, «anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri uomini»; e può farlo perché «è la vera lingua della preghiera, insieme adorazione e fortissimo legame» (Quarto quaderno in ottavo). È nel farsi «infinitamente piccolo» che Kafka individua una possibilità di redenzione. Nel Terzo quaderno in ottavo evoca un momento in cui «questa vita ci sembra insopportabile, un’altra irraggiungibile»; allora «si prega di venir trasferiti dalla vecchia cella, che odiamo, in una nuova, che dobbiamo ancora imparare a odiare». E conclude: «C’entra anche un briciolo di fede che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: “Costui non richiudetelo più. Ora viene con me”».

Kafka morì di tubercolosi a quarantun anni. In vita pubblicò pochissimo e raccomandò al suo amico Max Brod (che era già con lui a Brescia nel 1909) di bruciare tutto. Brod non ubbidì e oggi disponiamo di un’opera senza uguali, difficile da definire. Ma perché definirla? Basta aprire i Diari a caso per entrare nella quotidianità di un uomo che aveva il coraggio di non accontentarsi. Sono le dieci di mattina del 15 novembre 1910. L’autore, che ha ventotto anni, scrive: «Non mi lascerò stancare. Salterò dentro il mio racconto, anche se ciò dovesse tagliarmi il viso». È solo una frase fra tante, ma la prendo come un invito a restare nel mondo di Kafka, nel vivo delle sue ferite e della sua inquieta, inesausta ricerca.