Giussani-Niebuhr. L'intervento del cardinale Pietro Parolin

Le parole del segretario di Stato vaticano alla presentazione della tesi di dottorato del fondatore di CL (Pontificia Università Gregoriana, Roma, 6 giugno 2024)
Pietro Parolin

Sono grato di essere qui con voi per la presentazione della tesi di dottorato di Luigi Giussani, discussa nel lontano 23 giugno 1954, settant’anni or sono, ma pubblicata solo qualche mese fa per iniziati-va congiunta della Fraternità di Comunione e liberazione e del Rettore del Seminario di Venegono, nei cui archivi il testo si trova custodito.

A rendere ancora più significativa questa presentazione è la recente apertura della fase testimoniale per la causa di beatificazione e canonizzazione del servo di Dio don Luigi Giussani, avvenuta il 9 maggio nella Basilica di S. Ambrogio e presieduta dall’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini. È un ulteriore motivo di gioia, con cui accostiamo anche il volume di cui parleremo. Rileggendo oggi la sua tesi dottorale abbiamo infatti la possibilità di scoprire meglio un lato della vita e della personalità di don Giussani, che, per quanto noto, è rimasto certamente più in ombra: quello di geniale, appassionato e rigoroso ricercatore.

Non a caso i superiori del seminario di Venegono vedevano in Giussani una promessa della teologia, al punto da auspicarne in maniera decisa la carriera accademica. Tuttavia, il fuoco missionario che ardeva in lui, il desiderio impetuoso di far conoscere Cristo ai giovani – che in numerosi incontri nei primi anni Cinquanta gli apparvero sorprendentemente lontani dalla fede, in una Italia che veniva dipinta come tutta “cattolica” – ebbero il sopravvento e lo indussero ad abbandonare gli studi teologici. Chiese e ottenne dai superiori di andare nella scuola statale a insegnare religione. Nell’ottobre del 1954, qualche mese dopo aver conseguito il dottorato con il massimo dei voti, Giussani iniziò la sua attività di docente al Liceo Berchet di Milano. Dobbiamo essergli grati per questa decisione sofferta e provvidenziale, in virtù della quale decine e decine di migliaia di persone hanno potuto incontrare in un modo per loro persuasivo Cristo e vivere la fede in Lui.

Pur nelle mutate condizioni, immerso in un impegno educativo a tutto campo, Giussani non smise però di “fare teologia” e di elaborare coerentemente il suo pensiero: esso risulta indissolubilmente legato alla sua proposta educativa, nella quale efficacemente si è espresso. Lo ha sottolineato Papa Francesco il 15 ottobre del 2022 in piazza S. Pietro: «La Chiesa riconosce la sua genialità pedagogica e teologica, dispiegata a partire da un carisma che gli è stato dato dallo Spirito Santo per l’“utilità comune”».

1. La tesi dottorale e la passione ecumenica

Veniamo alla tesi di dottorato. Già la scelta dell’autore e dell’ambito di ricerca appare significativa. Essa documenta il fervore missionario ed ecumenico che animava il giovane Giussani, il quale, negli anni Quaranta, durante gli studi teologici in seminario, fu chiamato a guidare il gruppo S. Giosafat pro unità delle Chiese, il cui motto era: Ut unum sint. La passione per l’unità dei cristiani e della Chiesa è per lui tutt’uno con la passione di comunicare Cristo, come si comprende dalle parole dell’omelia che fu incaricato di pronunciare nella solennità di Pentecoste, il 28 maggio 1944, ancora ventunenne, al terzo anno di teologia: «Mi pare che nessun’altra nota caratterizzi meglio l’azione vivificatrice dello Spirito Santo quanto la sua forza di unità. […] Per questo l’unità anche esteriore della chiesa è la passione di Gesù: “Ut fiet unum” fino al paradosso “sicut Tu Pater in me et ego in Te”» (A. Savorana, Vita di don Giussani, BUR, Milano 2014, p. 95).

L’anelito ecumenico di Giussani fiorisce e si consolida nell’alveo della notevole apertura che qualificava la scuola di Venegono e i suoi maestri. Egli si occupa in particolare di ortodossia e di protestantesimo, nell’ottica di una «amicizia tra le Chiese» (Ibid., p. 141). In vista della tesi dottorale, studia a fondo il protestantesimo americano, concentrandosi infine sulla figura di Reinhold Niebuhr. Questi era considerato come il pensatore di maggior spicco della nuova teologia americana di allora, definita «neo-ortodossia» o «nuovo Realismo», sorta negli anni Trenta sotto l’influsso della teologia dialettica di Karl Barth e di Emil Brunner, da cui prende anche delle significative distanze.

Il titolo della tesi, Il senso cristiano dell’uomo secondo Reinhold Niebuhr, indica già, nei suoi tratti essenziali, la prospettiva della ricerca: la risposta alla domanda sul senso dell’uomo e della storia alla luce della Rivelazione. Poiché, scrive Giussani, «tutti i problemi posti dalla natura, dalla esistenza, dalla storia umana sono confermati e risolti alla luce dei concetti fondamentali della Rivelazione biblico-cristiana», possiamo senz’altro parlare «di “senso cristiano” dell’uomo secondo Niebuhr» (39).

Offrendo una esposizione lucida e rigorosa del pensiero di Niebuhr – imperniata sui due volumi dell’opera principale, La natura e il destino dell’uomo –, la tesi dottorale si rivela interessante per almeno due ordini di motivi. Da una parte essa ci fa cogliere quei temi e quegli accenti del percorso speculativo niebuhriano che hanno avuto un particolare impatto sulla sensibilità umana e teoretica di Giussani e che si ritroveranno, ripensati e rielaborati, nella sua produzione successiva (studi futuri potranno evidenziarne con pazienza i contorni). Dall’altra parte essa ci mostra il pensiero di Giussani già in atto, costituendo una sorta di prima “esplosione” di quel nucleo di intuizioni originali che era maturato negli anni di formazione e di studio. Ciò avviene sia nel contrappunto che costantemente accompagna l’esposizione della proposta niebuhriana sia, soprattutto, nella terza parte del lavoro, in cui Giussani compie di essa una puntuale e decisa rilettura critica.

2. Il problema umano

A Niebuhr, Giussani riconosce «acutezza di indagine sociologica, profondità filosofica e lo spirito religioso di un grande teologo» (L. Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia, Edit-Il Sabato, Roma 1993, p. 359). Ne apprezza in primo luogo la visione della natura umana, che si fa strada a partire dalla critica all’ingenuo ottimismo progressista, che aveva impregnato il pensiero religioso americano nei primi decenni del XX secolo – si pensi per esempio al «Vangelo Sociale» teorizzato da Raunscenbusch –. La prima guerra mondiale e la grande crisi del ’29 resero evidenti i limiti e l’inconsistenza di un tale ottimismo idealistico-sociale. Per Niebuhr fu però anzitutto decisiva l’esperienza vissuta come pastore della Bethel Evangelical Church a Detroit. Il coinvolgimento con le famiglie e le persone della sua piccola parrocchia «divenne sia il suo metodo di cura pastorale che la fonte di una profonda esperienza in cui si delineeranno le tendenze-chiave del suo pensiero» (31). Egli s’accorse che i successi dell’“organizzazione Ford”, salutati come conferma di un inarrestabile processo redentivo cui il «Social Gospel» sembrava dare consacrazione teologica, erano ottenuti con il sacrificio, lo sfruttamento, la disumanizzazione di folle di lavoratori: egoismo, auto-inganno, crudeltà si annidavano perciò in quella come in ogni altra intrapresa, e perfino nelle intenzioni migliori. «Fu la rivelazione e la conferma per lui della realtà universale, ineliminabile da ogni azione e situazione umana, di quel fattore di corruzione che il Cristianesimo chiama peccato originale. Si chiarì in lui una visione pessimistica della natura umana, il cui carattere apparve profondamente tragico e contraddittorio a ogni livello» (32).

Se questo è il punto di partenza della riflessione etico-sociale di Niebuhr, è in un secondo momento, con l’opera principale (1941-1943), che egli elabora una visione organica della natura umana, della sua “situazione” e della sua storia, a partire da una analisi esistenziale i cui elementi fondamentali sono reperiti nella rivelazione biblico-cristiana. È proprio rispetto al modo niebuhriano di cogliere il problema umano, che Giussani lascia trasparire la sua maggiore consonanza. In talune riprese giussaniane dei temi di Niebuhr, possiamo leggere delle anticipazioni di concetti che compariranno ne Il senso religioso.

L’umano, colto su un piano strutturale, si rivela come una tensione irresolubile tra elementi antitetici: natura e spirito, finito e infinito, esperienza del limite e anelito al suo trascendimento. Spirito, libertà, auto-trascendenza sono per Niebuhr sinonimi. Se l’essere umano è ovviamente figlio della natura, costretto dalle sue necessità, dall’altra parte è spirito, capacità di «elevarsi oltre ogni dato livello di realtà» (44). L’io, osserva Niebuhr, «“ha la capacità spirituale di trascendere sia il processo naturale in cui è immerso sia la sua propria coscienza” (I,75) (I numeri romani che compaiono in parentesi tonda all’interno delle citazioni si riferiscono alle opere di Niebuhr: I, al primo volume, Human Nature (1941); II, al secondo volume, Human Destiny (1943). Mentre FH si riferisce all’opera del 1949, Faith and History)» (45). «“La vita umana tende oltre se stessa” (I,158)». E Giussani commenta: «Lo spirito umano coglie l’esistenza come un fascio di indici convergenti ad un punto, anche se lo spirito umano non trova questo punto nella propria esistenza limitata» (88). L’uomo è cioè un essere finito che tende a un infinito, è capace di infinito, è esigenza di «un senso assoluto e finale dell’esistenza», che è «antitesi suprema al fatto della limitatezza e contingenza della realtà umana». Eppure, prosegue Giussani, «la finitezza della esistenza rende impossibile trovare in questa la soluzione di quella esigenza» (119).

Ora, l’esperienza del limite inerente a ogni realizzazione umana e l’esperienza, indissolubilmente legata alla prima, dell’insopprimibile esigenza di un compimento totale, di un significato esauriente, rappresentano i fattori della struttura umana. Per Niebuhr questo è il nucleo della «religione naturale», il «“fondamento ‘naturale’ per la rivelazione” (II,26 n. 3)» (89); per Giussani è l’attestazione del senso religioso come vertice di una ragione autenticamente vissuta, che tiene aperta la categoria della possibilità, disponendosi in posizione di domanda e di attesa della rivelazione di quell’«oltre» che del problema umano attui la soluzione. Da questa intuizione, che emerge dall’esperienza di ogni individuo, sorge «l’aspettativa di un qualche momento nella storia in cui dell’esistenza appaia quel senso ultimo che la trascende pur incarnandosi via via in essa», rimanendovi sempre, però, «in parte almeno, nascosto. Si apre cioè nel cuore dell’umanità l’aspettativa del Cristo» (147). È in rapporto al problema umano che Niebuhr chiama in gioco e delinea il ruolo e i termini della Rivelazione.

Anche solo da questi rapidi cenni si comprende perché, per Giussani, al di là di tutti i motivi di disaccordo e di critica, «un incontestato valore s’impone accostando Niebuhr» (242). Ciò che attira il suo interesse è una impostazione del problema umano e della soluzione cristiana che egli riconosce «di estrema attualità per il tipo di pensiero oggi dominante tutto quanto il mondo occidentale» (243-4). Impliciti richiami a tale impostazione si ritroveranno nel primo volume del Per-Corso, Il senso religioso. Il pregio dell’opera di Niebuhr sta insomma nell’aver saputo ripensare la strutturale problematicità dell’esistenza «come l’anima troppo sconosciuta d’ogni problema – come il problema» (244), riguadagnando in maniera esistenzialmente pregnante una apertura alla risposta cristiana. Lo testimonia un episodio avvenuto durante il suo lungo lavoro sui testi di Niebuhr: «La mattina, siccome dovevo consegnare un pezzo di tesi per la serata, mi sono buttato subito sul testo Natura e destino […] Apro il libro, capitolo tal dei tali, incomincio a leggere: “Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone”. [...] “Due più due uguale quattro” non è così evidente! Questo è più evidente, perché è più umano e perciò è più interessante, trascina dentro di sé molta più parte di noi stessi. [...] Cristo è la risposta all’uomo che si pone coscientemente di fronte a quella domanda immensa, imperitura, inesausta, che è il cuore» (A. Savorana, op. cit., p. 145).

3. Lo «sguardo critico». L’avvenimento cristiano e la sua per-manenza nella storia

Non mi soffermo sulla ampia parte del lavoro dedicata da Giussani alla ricostruzione della interpretazione niebuhriana della Rivelazione. Intendo concentrarmi direttamente su ciò che, nello “sguardo critico”, che si trova nella parte III della ricerca e in taluni accenni precedenti, documenta la concezione corrente nella teologia cattolica del tempo, segnatamente nella Facoltà teologica di Venegono, rendendo ad un tempo visibile, in nuce, quella concezione del cristianesimo che Giussani aveva già maturato all’epoca della stesura della tesi e che troverà ampia espressione nei testi successivi alla tesi dottorale.

La conclusione cui egli giunge al termine del lungo percorso nell’opera di Niebuhr è netta: «Sia da un punto di vista filosofico che da un punto di vista teologico, l’opera di Niebuhr è profondamente insoddisfacente per il nostro spirito di tradizione latina e cattolica» (240). Giussani mette severamente in questione la comprensione niebuhriana della «verità costitutiva della Rivelazione Cristiana nei suoi elementi essenziali» (201). Sulla scorta della teologia liberale – da cui per altri versi si distanzia – e della distinzione tra il Gesù storico e il Gesù della fede, il teologo americano rifiuta infatti il concetto tradizionale dell’Incarnazione. «La figura storica di Cristo per Niebuhr non fu certamente quella di un uomo-Dio, di un Dio incarnato nel senso letterale, e cattolico, della parola» (75-6). Egli parla infatti di «“razionalmente assurda dottrina ortodossa delle due nature di Cristo” (I,45)» (76). Come assurda considera la pretesa che la perfezione, scoperta dalla fede nella figura di Cristo, sia un fatto storico. Cristo è il «“punto focale dell’auto-manifestazione di Dio” (FH,144)» – è sempre Niebuhr che parla –, nella storia umana è in Cristo che Dio si è manifestato compiutamente, ma Gesù ebbe «“da una parte una fisionomia e una personalità storica e umana, e… (un) significato come rivelazione del divino dall’altra” (II,60)» (78). Vale a dire, sottolinea a questo punto Giussani: «Il Verbo si è manifestato nella Carne, ma il Verbo non si è fatto carne» (79).

L’Incarnazione, cioè, non dice per Niebuhr «qualcosa che Gesù è, ontologicamente, ma qualcosa che Dio è per rapporto all’uomo, e che Dio fa venire a conoscenza dell’uomo attraverso le circostanze della vita di Cristo» (78). La parola “rivelazione” non ha più dunque alcun senso ontologico, ma viene utilizzata nel suo senso etimologico di qualcosa che si “svela”, di un inaccessibile che si dà a conoscere: in Cristo si manifesta chi Dio sia per l’uomo. Niebuhr definisce, certo, la rivelazione come «evento», ma – osserva Giussani – «nell’evento rivelativo il fatto storico è, per così dire, l’elemento materiale: la sua importanza non proviene dal suo valore intrinseco, quanto invece dal fatto di essere destinato a spunto perché l’intuizione della fede vi colga una determinata verità» (73). In tal senso il teologo americano usa la parola «simbolo» per indicare l’«evento» della Rivelazione.

Nella visione niebuhriana, che si inscrive nell’orizzonte del protestantesimo (Niebuhr è «perfettamente protestante» (203), rimarca Giussani), l’Incarnazione perde la sua consistenza ontologica e di conseguenza la perde anche la Redenzione, che finisce per coincidere con «l’influsso psicologico della rivelazione», a sua volta – come abbiamo richiamato – privata di significato ontologico. Per la tradizione cristiana, invece, ribadisce a più riprese Giussani, tanto il principio redentivo quanto il suo effetto hanno un valore ontologico. Quando Niebuhr definisce l’intervento rivelativo e redentivo di Dio come una «“invasione dell’io” (II,100)», egli la intende come «l’invasione dell’idea nella mente». Per la tradizione cristiana si tratta invece dell’«invasione dell’essere divino nell’essere umano» (228), come documenta il «vigoroso linguaggio giovanneo e paolino sulla trasformazione ontologica dei seguaci di Cristo» (230). È il tema della «creatura nuova» e della «nuova nascita», su cui Giussani tornerà innumerevoli volte.

Conseguenza della niebuhriana nullificazione ontologica di Incarnazione e Redenzione è la completa svalutazione della Chiesa, che viene intesa come «“una comunità di contriti credenti” (FH,138)» (236), il cui principio di coesione risiede nell’essere mossi dallo stesso atteggiamento fondamentale verso la vita. Essa «non è qualcosa di “dato”, una “via” o un’“arca” in cui l’uomo deve entrare se voglia salvezza» (236). Niebuhr è lontanissimo dalla concezione paolina e agostiniana della Chiesa. Per la concezione tradizionale e cattolica, la Chiesa «è Cristo Redentore che conquista il tempo e lo spazio fino a raggiungere quella pienezza prevista dal Padre. Per essa e in essa l’ephapax, l’avvenimento redentivo assolutamente unico, diventa il grande fattore della storia» (236). La Chiesa è il prolungamento di Cristo nella storia, essa è «il pleroma di Cristo fin nel dominio che Egli ha su tutte le cose […] Il valore della Chiesa è il valore di Cristo» (239).

Possiamo fermarci. Si annunciano già qui, in queste pagine dense, come ho anticipato all’inizio, le intuizioni portanti del pensiero di Giussani, che si raccolgono attorno al concetto di avvenimento: il cristianesimo è l’avvenimento dell’Incarnazione. Scrive in un suo testo del 1998: «La parola “avvenimento” è dunque decisiva. Essa indica il metodo scelto e usato da Dio per salvare l’uomo: Dio si è fatto uomo nel seno di una ragazza di quindici-diciassette anni chiamata Maria, nel “ventre che fu albergo del nostro disiro”, come dice Dante. La modalità con cui Dio è entrato in rapporto con noi per salvarci è un avvenimento, non un pensiero o un sentimento religioso. È un fatto avvenuto nella storia» (L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo (1998), BUR, Milano 2019, pp. 23-24). L’avvenimento dell’Incarnazione è il nucleo del cristianesimo a cui Giussani sempre, instancabilmente ritorna.

Egli non dice soltanto che il cristianesimo “è stato” un avvenimento, ma che esso “è” un avvenimento, cioè che quell’avvenimento unico permane nella storia come avvenimento, come «qualcosa che sta accadendo ora». Vi è cioè una contemporaneità dell’Incarnazione. Come? Osserva Giussani nel suo volume Perché la Chiesa: «Perfino quando Gesù era nel vivo della sua attività terrena, il Suo avvenimento assumeva una forma che non si identificava solo con la fisionomia fisica della Sua persona, ma anche con la fisionomia della presenza di coloro che credevano in Lui, sì da essere inviati da Lui a portare le sue parole, il suo messaggio, a ripetere i suoi gesti portentosi, a recare cioè la salvezza ch’era la Sua persona» (L. Giussani, Perché la Chiesa. Volume terzo del PerCorso (1990 e 1992), Rizzoli, Milano 2003, p. 26). Nei luoghi in cui andavano, la persona del «Verbo fatto carne» diventava pertanto avvenimento attraverso la presenza di coloro che erano inviati da Lui. Lo stesso «metodo» continua dopo la scomparsa di Gesù dall’orizzonte terreno. «L’avvenimento di Cristo permane nella storia attraverso la compagnia dei credenti, che è un segno, come tenda nella quale sta il sancta sanctorum, il Mistero diventato uomo» (L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 43). Nella tesi dottorale scriveva infatti: «La persona di Cristo non ha una vitalità circoscritta come tutte le altre persone umane. Essa possiede una realtà pneumatica per cui costituisce una “sfera di vita, nella quale l’uomo credendo inerisce” (Guardini). L’insieme di queste inesioni, cioè lo sviluppo di quel principio “pneumatico-reale” è la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo» (236).

La compagnia dei credenti, cioè la Chiesa, il “Corpo di Cristo”, secondo la potente intuizione paolina, costantemente ripresa da Giussani, si propone a tutti gli uomini come la forma dell’avvenimento di Cristo ora, che incontra la sete di senso e di compimento, di speranza e di pace, di coloro che vivono ora, immersi nel dramma e nelle sofferenze che, insieme alle normali vicende dell’esistenza, i sanguinosi, laceranti conflitti del tempo presente rendono ancora più inesorabilmente acute.