Ciò che nessun potere può toglierci

Se la vita è totalmente donata, anche l'uomo privato di tutto non è mai schiavo di alcuna menzogna. L'attualità della lezione di Aleksandr Solženicyn citato da don Giussani nell'ottavo capitolo de "Il senso religioso"
Adriano Dell'Asta

Una giornata di Ivan Denisovič e La casa di Matriona, l’Arcipelago Gulag e La ruota rossa: l’infinitamente piccolo dei due primi racconti e l’infinitamente grande dei due possenti affreschi storici coi quali Aleksandr Solženicyn ricostruiva la storia dei campi di concentramento sovietici e quella della rivoluzione del 1917 con il dramma che l’aveva preparata. Nei due racconti, invece, il grande scrittore russo (premio Nobel per la letteratura nel 1970) narrava la storia di un uomo e di una donna di cui ci faceva riscoprire la grandezza e la dignità: da una parte la sorprendente grandezza di Ivan Denisovič, un semplice detenuto di un campo staliniano che era riuscito a conservare la propria libertà e la propria anima anche in un lager, un luogo fatto apposta per distruggere l’umanità («devi essere contento di essere in prigione – gli dice un altro detenuto, che come lui non aveva ceduto – perché qui hai tutto il tempo di pensare all’anima»); dall’altra l’inimmaginabile dignità di Matriona, una povera contadina che tutti consideravano stupida e con un passato per nulla irreprensibile e che invece, dopo la morte, si era rivelata «il giusto senza del qual non vive il villaggio, né la città né tutta la terra nostra».

Citato nell’ottavo capitolo del Il senso religioso, dove don Giussani ci fa cogliere la tragedia di un uomo che, avendo smarrito l’«interezza dei suoi fattori», perde se stesso, Solženicyn documenta invece una possibilità di resistenza alla presa del potere, il potere nella sua forma più estrema, quella del totalitarismo sovietico, che lo scrittore aveva imparato a conoscere sin dall’inizio (era nato nel 1918) e che avrebbe segnato tutta la sua vita, prima affascinandolo col sogno di un mondo nuovo, poi respingendolo con la pratica di una violenza omicida, poi trasformandolo in un suo irriducibile oppositore (otto anni di campo a partire dal 1945, l’esilio dopo il 1974), e finendo col soccombere. Solženicyn, invece, gli sarebbe sopravvissuto, tornando in patria nel 1994 e assistendo (sino alla morte avvenuta nel 2008) al suo faticoso percorso verso un’incompiuta democratizzazione.

Come era stato il testimone dell’irriducibile nobiltà dei singoli apparentemente più insignificanti, Solženicyn era stato dunque anche l’osservatore della grande storia dove aveva visto il tentativo di distruggere sin nelle radici l’umanità e dove aveva anche saputo cogliere e denunciare lo strumento col quale il regime aveva cercato di portare a compimento questo progetto, l’ideologia, che, non casualmente viene evocata da don Giussani proprio citando Solženicyn: «Le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una decina di cadaveri: perché mancavano di ideologia… Grazie all’ideologia è toccato al secolo XX sperimentare una malvagità esercitata su milioni».

Proprio il superamento dell’ideologia attraverso la riscoperta dell’infinito della realtà «non fatta da mano d’uomo» era stata per Solženicyn la via che lo aveva guidato a riscoprire un significato buono dell’essere in mezzo alle tragedie del secolo e della sua stessa esistenza personale (che oltre alla rivoluzione e alla guerra aveva dovuto superare anche la prova di un tumore).

Era l’intuizione di quel significato buono che lo aveva spinto a non rompere col passato, per usare l’espressione di don Giussani, o, per usare una formulazione di Solženicyn, a studiare la storia e a sposare «la sorte dello scrittore russo contemporaneo preoccupato della verità: bisognava scrivere unicamente perché tutto questo non venisse dimenticato, perché un giorno lo sapessero i posteri», perché solo giudicando era possibile non ricadere nelle stesse tragedie del passato e scoprirvi invece una ricchezza sorprendente, quella degli uomini, che sapevano vincere «l’odiosa divisione del mondo», come l’aveva chiamata, secondo la tradizione, san Sergio di Radonež, uno dei grandi santi russi.

E forse era proprio per questo, per questa vittoria sulla divisione, che Matriona si era scoperta «giusta»: non per meriti suoi, ma perché «non compresa e abbandonata persino dal marito, estranea alle sorelle e alle cognate, ridicola, pronta a lavorare stupidamente per gli altri senza compenso, aveva sepolto i sei figli, ma non l’indole sua socievole».

Del resto, il primo passo di ogni sistema totalitario, invece, è proprio l’atomizzazione della società perché solo un popolo fatto di entità isolate può essere assoggettato facilmente ed essere privato dei punti riferimento, dei rapporti che gli consentono di resistere alle pressioni di qualsiasi regime, dandogli un baluardo da condividere con i suoi simili e dal quale far fronte agli attacchi del potere e alla demoralizzazione di un uomo che, come Solženicyn privato di una verità non relativa, si trovava in balia della propria solitudine e del proprio arbitrio.

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L’uomo che non è più solo, che ritrova il proprio significato, totalmente donato (come totalmente donata era la vita che Solženicyn si era ritrovato dopo ogni prova), riscopre allora qualcosa che non gli può essere più tolto da nessun potere terreno e relativo: un uomo privato di tutto non può più essere privato di nulla e si riscopre di nuovo libero. Ha una forza che da solo non potrebbe darsi ma che, riconosciuta diventa invincibile: «Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini con la mia collaborazione! Ecco la nostra via: non sostenere in nessun caso, consapevolmente, la menzogna!».