«Tutti i miei versi sono rivolti a Dio»

Su "Tracce" di settembre un ritratto della vita e dell’opera della grande poetessa russa Marina Cvetaeva. Nei risvolti tragici e oscuri del ventesimo secolo, la fecondità di una voce che grida il bisogno di «inaudito»
Giovanna Parravicini *

«Parigi non c’entra, l’emigrazione non c’entra – sarebbe stato lo stesso anche a Mosca e durante la Rivoluzione. Nessuno ha bisogno di me: il mio fuoco non serve a nessuno perché non ci si può cuocere la kaša».

Così leggiamo in una pagina dei Taccuini nel 1932. Qui c’è tutta Marina Cvetaeva, con il suo «uragano interiore» (come il marito Sergej Efron avrebbe definito le sue passioni e i suoi impeti inestinguibili e costantemente delusi), ma anche con la sua condizione di «mancamento e vòto» esistenziale, per dirla con Leopardi, da cui per anni sarebbe sgorgata la sua grande poesia, ma che l’avrebbe anche condotta, il 31 agosto 1941, al gesto estremo del suicidio.

Con la pubblicazione dei Taccuini 1922-1939 (Voland 2024), che fanno seguito ai Taccuini 1919-1921, usciti dieci anni fa, il lettore italiano ha a disposizione nella sua integralità un prezioso strumento per penetrare nel laboratorio artistico e nel dramma umano di uno dei più grandi poeti russi del ventesimo secolo.

«Non conosco un destino più tragico di quello di Marina Cvetaeva», così Nadežda Mandel’štam, vedova del grande poeta, l’avrebbe ricordata. E la pianista Marija Judina rievoca un incontro pochi mesi prima della sua tragica fine, quando non era riuscita a comunicare con lei, così cupa, chiusa nella sua disperazione: «Avrei dovuto gettarmi ai suoi piedi, baciarle le mani, bagnarle di lacrime ardenti, brucianti, offrirmi di portare un po’ dei suoi fardelli…».

La Cvetaeva nasce a Mosca nel 1892 in una famiglia molto sensibile alla bellezza e alla cultura: la madre era una eccellente pianista, il padre, filologo e critico d’arte, avrebbe fondato l’odierno Museo Puškin di Mosca. Nel 1912 il matrimonio, osteggiato dalla famiglia, con Sergej Efron.

Questi nel 1917 si schiera contro la Rivoluzione e si arruola nell’esercito dei «bianchi»: inizia così una separazione che sarebbe durata cinque anni, e che Marina affronta con due bambine piccole sulle spalle, in condizioni economiche durissime; la figlia minore, Irina, nel 1920 muore di denutrizione in un istituto in cui la madre l’aveva lasciata, rendendosi conto di non essere in grado di sfamare entrambe le figlie e facendo in qualche modo una scelta a favore della più grande, che aveva maggiori probabilità di sopravvivere. Un rimorso – la morte di Irina – che la Cvetaeva si porterà dietro per tutta la vita.

Nel 1922, venuta a sapere che il marito è vivo e si trova all’estero, Marina abbandona la Russia insieme alla figlia Ariadna. Per gli Efron comincia così una vita di peregrinazioni all’estero, nell’emigrazione: in Germania, in Cecoslovacchia, in Francia. Nel 1925 a Praga nasce il terzo amatissimo figlio, Georgij (Mur).

Il tessuto dei Taccuini è trasparente di questo vissuto quotidiano in cui si intrecciano il dono creativo di Marina, i suoi rapporti più profondi (in particolare la corrispondenza con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke), e insieme prosaici appunti di vita quotidiana, liste della spesa, tentativi di far quadrare il magro bilancio familiare, appunti, annotazioni di pugno del marito e dei figli. Sono anni drammatici, di grande fecondità (soprattutto il triennio boemo), ma anche di solitudine e addirittura ostilità da parte degli ambienti degli emigrati, a Parigi. Questa registrazione in filigrana della vita si interrompe nell’estate del 1939, al rientro in Unione Sovietica, con un’ultima annotazione scritta il 19 giugno sul treno che porta Marina e il figlio da Leningrado a Mosca («Mi sono svegliata, ho pensato che i miei anni sono contati, poi lo saranno anche i mesi…»).

La Cvetaeva era stata indotta a rientrare in patria dalla misteriosa scomparsa da Parigi del marito, coinvolto in un oscuro caso di spionaggio politico, dalle pressioni dei figli ma anche dalla speranza di trovare in patria una cerchia di amici e un possibile pubblico: in realtà, nello stesso autunno la figlia Ariadna e Sergej vengono arrestati (lei trascorrerà 17 anni in lager, lui sarà fucilato nel 1941). Sono anni di povertà ed emarginazione, in cui Marina si mantiene grazie a traduzioni procuratele dai pochi amici rimasti.

Allo scoppiare della guerra, quando Mur viene arruolato per disinnescare gli ordigni inesplosi, lei terrorizzata cerca di metterlo in salvo unendosi a un gruppo di scrittori evacuati nella Repubblica sovietica tatara. Qui, ad Elabuga, il 31 agosto, dieci giorni dopo l’arrivo, si impiccherà. Sarà sepolta in una fossa comune. Mur morirà al fronte il 7 luglio 1943.

Le tragiche vicissitudini di Marina non bastano ancora a darci la misura del dramma da lei vissuto, che si pone non tanto (o non solo) al livello degli accadimenti esterni, quanto al livello della sua percezione della realtà. La sua poesia vibra di una costante tensione tra la sete di vita, di pienezza, del tutto, e la percezione della finitezza, della morte come annullarsi dell’essere, come annichilimento della vita; è un grido in cui si assommano disperazione, paura, dolore e coraggio: «Ascoltate! Io non lo accetto! Questa è una trappola! Non me caleranno nella fossa, non me. Lo so! – Tutto diviene polvere! E non accoglierà la tomba niente di ciò che ho amato, e di ciò per cui ho vissuto» (Posvjaščaju eti stroki – Dedico queste righe, 1913).

Questa tensione trova la propria catarsi in un rapporto, in un amore assoluto, unico, a cui dedicare l’esistenza: «Tu sai di che cosa io ho voglia – quando voglio. Di oscuramento, rischiaramento, trasfigurazione. Dell’estrema sporgenza dell’anima altrui – e della mia. Delle parole che non sentirai, che non dirai mai. Dell’inaudito. Del mostruoso. Del miracolo» (Lettera a Rilke, 10 luglio 1926).

Ma chi, o che cosa amare? Dove è l’oggetto (il miracolo) che si possa amare e di cui essere appagati? Neppure la famiglia, il marito, i figli – legami a cui Marina non verrà mai meno – le bastano. È una misteriosa «alterità» il termine ultimo di un rapporto che fa tutt’uno con il bisogno di amare ed essere amata, con la consapevolezza di una misteriosa, infinita fecondità.

Così la Cvetaeva, nel 1931, rileggerà un’altra sua poesia: «“Io sono una pagina per la tua penna. / Tutto ricevo. Sono una pagina bianca. / Io sono la custode del tuo bene: / Lo crescerò e lo ridarò centuplicato. / Io sono la campagna, la terra nera. / Tu per me sei il raggio e l’umida pioggia. / Tu sei il mio Dio e Signore, / e io sono terra nera e carta bianca”. Avevo coscienza allora, nel 1918, che paragonandomi a ciò che di più umile esiste (la terra nera e la carta bianca), mi definivo al tempo stesso come la cosa più grande: il grembo della terra (terra nera) e tutte le possibilità del foglio bianco? Che io, con l’ingenuità di un’innamorata, mi paragonavo semplicemente al tutto?».

E continuerà: «1918-1931. Una modifica: in questo modo ci si può rivolgere solo a Dio. Questa era una preghiera! E gli uomini non si pregano. 13 anni fa – non che non lo sapessi! – non ne volevo sapere, ostinatamente. E, una volta per sempre, questi miei versi, tutti i miei versi sono rivolti a Dio... Al di sopra degli uomini – a Dio. O almeno – agli angeli. Se non altro per questo motivo, che nessun uomo li ha accettati, se ne è impadronito, li ha sentiti suoi, ne ha accusato ricevuta. È così: tutti i miei versi, se non sono rivolti a Dio, mi sono ritornati indietro».

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Luglio 1933: «Curva, finché non mi raddrizzerò / in tutta la mia statura/ che alle stelle arriva. / – / Come l’arcobaleno curva». Così leggiamo nei Taccuini, con la precisazione che nasce dalla consapevolezza della densità, unicità della propria poesia, del mistero che vi è racchiuso: «Io sono quella canzone da cui non si può eliminare una parola, quel filato da cui non si può estrarre un filo. Non piaccio – non cantatela, non [...], non abbigliatevene. Solo non cercate di correggerla, è un’impresa non umana, ma Divina: verrà il momento in cui io stessa (ossia, per altrui dettame!) slegherò, spargerò, scioglierò: renderò la canzone ai venti, il mio filato – ai nidi. Sarà l’ora della mia morte, della mia nascita nell’altra vita. Ma fin quando tutto è unito, intessuto, intrecciato – non avvicinatevi, significa solo che sono ancora viva».

* Ricercatrice di Russia Cristiana e responsabile della Biblioteca dello Spirito di Mosca