L'ora di luce del Ministro

Il capo della Farnesina, Franco Frattini, visita il centro di aiuto allo studio milanese e incontra ragazzi e volontari. Tra storie e testimonianze, lo stupore del ministro: «Voi realizzate quello che dovremmo avere a cuore noi»
Paolo Perego

L’aula di matematica è gremita, anche se la scuola è cominciata da pochi giorni. Poco più in là un gruppetto di professori attende fuori da quella di italiano. In mezzo al corridoio, vicino alle scale una ragazza con una prof a fianco è china sul vocabolario. «Buongiorno. Che fate?», chiede lui tra guardie del corpo, giornalisti e accompagnatori. «Greco», fa la ragazzina. E riabbassa il viso sulla versione. Lui è il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Il corridoio è quello della sede di Portofranco, in un normale pomeriggio di attività del centro di aiuto allo studio milanese (vedi Tracce, n. 3/2010).
Venerdì 16 settembre. «Ho accettato curioso l’invito di Alberto Piatti, segretario generale di Avsi, a visitare questo posto. Mi avevano raccontato cose molte suggestive, ma quello che ho visto…». Frattini lo dirà poco dopo, al termine dell’incontro con i ragazzi nell’Aula Magna. Prima, un giro tra le stanze di quella che per anni è stata una scuola e che, da ormai dieci, ha ricominciato a ospitare libri e studenti al pomeriggio. Così il Ministro incrocia i ragazzi, i professori, i volontari. L’universitario che aiuta in Fisica la studentessa bionda, o la suora salesiana alle prese con il libro di letteratura di una ragazzina con il velo, egiziana. Poi su sulle scale, al piano di sopra, nel salone gremito di ragazzi che hanno solo voglia di raccontare di quel posto che a tanti ha cambiato la vita.
«In dieci anni sono passati di qui circa 2.400 volontari. Ed è questa la spina dorsale di questo posto», spiega il presidente Alberto Bonfanti a Frattini: «Questo è un modello di società, dove si incrociano quattro generazioni: gli studenti, gli universitari, i professori e gli adulti in pensione che vengono a dare una mano, tanti ex docenti ma non solo». In prima fila, Frattini guarda il video che racconta di una storia, di facce. Di tante storie: Momo, Andrea, Abdel, Mohamed… E di quel sacerdote milanese che dieci anni fa ebbe l’idea di mettere su quest’opera, don Giorgio Pontiggia, scomparso pochi anni fa. «Non ho mai conosciuto questo don Giorgio. Ma vedo voi e quello che ha fatto. E penso che doveva essere un uomo straordinario. Perché voi incarnate l'esempio di come tutti noi dovremmo affrontare i problemi», dice Frattini con ancora negli occhi la faccia di Randa, egiziana: «Qui non ti giudicano, non c’è etichetta: ti guardano per quello che sei, in tutto quello che sei». O di Mohamed, matricola di Economia e legislazione di impresa alla Cattolica: «Io non avrei mai pensato di riuscire a finire il liceo. Non ho mai capito davvero cosa ci sta sotto, il perché certa gente ti aiuta con tutta questa gratuità. Ma quello che ho vissuto qui è un’esperienza di famiglia, la mia seconda famiglia. Se non addirittura la prima».
E poi la mamma di una ragazza algerina, maturata quest’anno: «Vivevo una situazione difficile: immigrata, sola, con tre figli. Ero preoccupata per loro, desideravo che non si perdessero. Mi hanno indicato questo posto, e li ho mandati qui. E poi ho scoperto che accadevano miracoli. Ora ci vengo anche io: sono una di loro, parte di quest’amicizia. Qui non sono straniera, mi sento a casa mia». O ancora, il volontario Andrea: «Quello che facciamo qui lo facciamo per noi, è un bene per noi. Che incide nella vita di tutta di giorni: cambia il modo di fare tutto». E poi il “vecchio” professore, Giovanni, quello che a suon di milanese («il vero miracolo», dice Bonfanti) riesce anche a farsi capire dagli arabi: «C’è una canzone degli alpini che canto fin da quando ero piccolo, La Ceseta de Transaqua, che dice in una strofa: "Cosa importa se ho le scarpe rotte: io ti guardo e mi sento il cuor contento". Contento, pieno. Quanti ragazzi arrivano qui "con le scarpe rotte", scolasticamente o per condizioni familiari difficili. Eppure li vedi dopo, loro e il loro cuore pieno davanti a quello che vedono accadere». Davanti a un abbraccio così.
«Come potrei dirvi qualcosa di preparato prima?», dice Frattini, chiudendo la cartelletta e lasciando fuori solo un foglio dove si è segnato tutto quello che ha sentito: «Venire qui mi ha fatto uscire per un’ora dal menage dei bollettini delle crisi internazionali di questi giorni». Tante discussioni, tante posizioni differenti «dove però tutti vedono nero». E che «lasciano l’amaro in bocca», dice sospirando mentre spiega a Mohamed, direttore del giornalino di Portofranco, perché si è intervenuti in Libia mentre in Siria no: «Certo ci sono spiegazioni: sarebbe pericoloso destabilizzare l’area, ci sono dei fattori da tenere presente, Libano, Israele, Iran… Ma l’amaro resta», continua il Ministro: «Qui non è così, non vedete nero. Allora mi viene da pensare che chi ha responsabilità istituzionali a questo livello dovrebbe fare uno stage qui. Perché qui non c’è solo un modo di vivere l’integrazione, ma un modo di affrontare la vita. E proprio questi modi di affrontare la vita dovrebbero stare al centro delle relazioni internazionali. Tra qualche giorno sarò all’Onu a parlare di queste cose. Voi realizzate quello che dovremmo avere a cuore noi responsabili della società civile».