Studenti al liceo Berchet di Milano (Ansa)

Dove non si perde il gusto del vivere

I giornali spesso dipingono un quadro desolante della scuola italiana e della fragilità dei ragazzi. Ma cosa hanno vissuto le centinaia di studenti che hanno partecipato al Triduo di Gs? Parla un prof
Simone Invernizzi

«Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità» scrive Teilhard de Chardin «non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame, né la peste; è invece quella malattia spirituale […] che è la perdita del gusto di vivere». Con questa citazione, ripresa da un intervento di don Giussani nel 1985, don Fabio Colombo ha descritto il momento storico in cui viviamo la sera del Giovedì Santo, introducendo il Triduo di Gioventù Studentesca.

Come si è dimostrata vera questa profezia. Sono partito per Rimini avendo nella testa alcuni recenti articoli di giornale che dipingevano un quadro allarmante della scuola italiana, milanese in particolare. Ha fatto scalpore la notizia che oltre cinquanta studenti hanno abbandonato il liceo Berchet dall’inizio dell’anno, perché non reggono lo stress e la pressione. Il quadro appare desolante, perché alla fragilità e all’ansia dei ragazzi troppo spesso corrisponde l’indifferenza o la distrazione degli adulti: «Ho davanti professori che sono dei muri di gomma»; o «ciò che mi dà più fastidio è vedere adulti che non si interessano a noi e che non hanno quel rispetto che invece pretendono». Queste le parole di alcuni studenti di scuole statali, con cui ho discusso del problema. La perdita del gusto del vivere colpisce tutti, adulti e ragazzi senza distinzione.

Eppure, dopo tre anni di pandemia, circa tremila e seicento di questi ragazzi e professori si sono ritrovati a Rimini per vivere insieme il Triduo pasquale. Il fatto è già di per sé imponente: «Quando sono entrata in salone mi sono resa conto che le sedie erano tantissime: ma sono tutte per noi?!», racconta Agnese, arrivata nel pomeriggio nel salone della fiera per provare i canti insieme al coro.

Giovedì sera, siamo stati accolti dal saluto di Davide Prosperi, presidente della Fraternità di CL, che ha vissuto l’intero gesto con noi: perché ci siamo radunati per «rivivere insieme la passione e resurrezione di Gesù»?; «Cosa c’entrano questi fatti accaduti duemila anni fa con la vostra vita oggi»? È una catena di testimoni che partendo dai primi, Giovanni e Andrea, arriva fino a don Fabio, che insieme a Francesco e Seve, ha guidato il Triduo.

Accanto a me Giovanni segue in silenzio; in mano ha una penna, con la quale annota le parole che più lo colpiscono su un blocco per appunti. Stranamente non guarda il cellulare nemmeno una volta, lui che di solito non se ne stacca mai.

Dell’introduzione di don Fabio mi colpisce non solo la citazione di Teilhard de Chardin, ma anche il suo commento: «Chi ci libera dalla perdita del gusto del vivere? Non i nostri sforzi ma l’iniziativa di un Altro. C’è Uno che ha preso a cuore la nostra domanda, il nostro destino». Queste parole si rivelano una chiave di lettura adeguata per comprendere tanti fatti che accadono durante questi giorni e catturano la mia attenzione.

Il Venerdì Santo, dopo la lezione del mattino, c’è la Via Crucis per le strade di Sant’Arcangelo di Romagna. Durante una delle stazioni, Gabriele ascolta il commento di un signore anziano, bloccato con la sua auto dal passaggio della processione: «È incredibile, non finiscono più. Se lo raccontassi a degli amici non ci crederebbero».

La sera stessa, durante l’assemblea di ripresa in albergo, si raccolgono le prime reazioni. Tra i tanti interventi, c’è chi registra un cambiamento inaspettato, come Maria: «Sto passando un periodo difficile e sono immersa nei miei pensieri. Oggi invece sono riuscita a liberare la mente e a vivere la Via Crucis»; le fa eco Sara: «Ultimamente faccio fatica a vedere il filo delle cose, che passano senza lasciarmi nulla. Poi arrivano momenti come questo e io mi sento parte di qualcosa di grande».

L’ultimo giorno, dopo l’assemblea e la sintesi, ci fermiamo nel piazzale della fiera per mangiare insieme i panini prima della partenza. Alcuni salutano gli amici del coro, che abbiamo visto solo da lontano in questi giorni. Mentre i ragazzi scherzano tra loro, osservo una strana allegria, come se l’amicizia avesse fatto un salto di livello: c’è una familiarità nuova, una attenzione all’altro, una gratitudine silenziosa che traspare dagli occhi di ragazzi e i professori attorno a me.

Tornati a Milano, la settimana successiva ci troviamo insieme per un momento di ripresa di quanto vissuto. «Il Triduo mi è piaciuto molto, anche se alcune cose non le ho capite. Io mi aspettavo una dimostrazione convincente dell’esistenza di Dio: non ho avuto questo, ma ho vissuto un’esperienza bella, mi sono sentito a casa. Ho capito che sarebbe sbagliato ingabbiare Dio in un’idea che abbiamo noi in testa», racconta Gabriele. E Diletta: «Non ero sicura di venire, perché avevo paura di perdermi dentro a tutte le novità. Mi ha stupito il fatto che ogni aspetto dell’organizzazione fosse curato. Io, che sono un tipo preciso, non ho dovuto pensare a nulla. Tutto era preparato per me».

«Ma perché?», li incalziamo noi adulti: «A cosa è dovuto tutto questo?». È importante chiederselo, perché, come ha suggerito don Fabio durante la lezione di venerdì mattina, di fronte a fatti come questi la vera differenza è tra chi usa la ragione fino in fondo, arrivando a ciò che li origina, e chi si arresta prima.

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Chiara dice: «Sono stati tre giorni molto densi. Ciò che ho sentito di più è stato il conforto che le parole di don Fabio e di Seve mi hanno lasciato. Mi è rimasta una luce di speranza. Ci hanno detto che c’è uno che ci sta aspettando da sempre, c’è qualcuno che aspettava me. La vita è una battaglia, ma questa battaglia l’ha già vinta qualcuno». «Ma perché queste parole ti hanno colpito così tanto?», le domando. «Chissà quanti ti avranno già detto cose simili…». «È vero, ma questa volta ho sentito una cosa diversa: la voce, il tono, la sicurezza con cui parlavano era completamente diverso. Ci credevano, erano convinti che stessero parlando con ciascuno di noi».

Paolo, un amico insegnante, fa notare ai ragazzi che ciò che dicono è molto simile all’amicizia tra gli apostoli e Gesù, che ci ha descritto Davide nel suo saluto introduttivo. Poi aggiunge: «Io sono sceso a Rimini un giorno dopo, perché è mancato un mio carissimo amico. Sono venuto con una grossa domanda di significato. Mi ha sorpreso riscoprire che il significato non si spiega, ma ti viene incontro in un luogo, in una compagnia come questa». Insomma, una meravigliosa risposta alla perdita del gusto del vivere.