Vince chi abbraccia più forte

«Non sapevo cosa volesse dire aiutarli. Ma volevo accoglierli come sono stato accolto io». Fernando Morán, della ong spagnola Cesal, accompagna ragazzi a rischio di esclusione. Da "Tracce" di settembre
Davide Perillo

Mohamed aveva 12 anni quando è arrivato in Spagna. Aveva viaggiato nascosto sotto un camion: il Marocco, Ceuta, la nave. E poi la terra della speranza, parola che doveva suonare strana per un ragazzino buttato fuori di casa da piccolo, abituato a vivere per strada e a mostrarsi più grande di quello che era. «È entrato in un centro immigrati, ma dopo un po’ lo hanno fatto uscire perché pensavano fosse maggiorenne». Da lì, la via storta che imboccano in tanti: qualche furto, arresti, condanne. Fino a un incontro inatteso. «Ci ha conosciuto, ha fatto il corso di cucina. E dopo un po’ era un altro, pronto a ricominciare».

Quando è arrivata la condanna, tre anni da scontare per qualcosa che ormai apparteneva al passato, Mohamed voleva scappare in Francia. Ed è lì che Fernando Morán, 52 anni, Memor Domini, responsabile della formazione di Cesal, la ong spagnola che lo aveva accolto, ha rischiato il tutto per tutto. «Gli ho detto: devi rispondere di quello che hai fatto. Fai questi anni di carcere, e poi ricominciamo da capo, ma puliti. Ha risposto di sì. Non lo avrei immaginato. Ma lo ha fatto per il rapporto che c’è. Per me, è come un figlio». L’abbraccio di un padre. Quello che ha permesso a Mohamed di guardare in faccia la realtà. Di resistere, scontando 18 mesi prima di uscire per buona condotta, e poi di ricominciare davvero. «Ora lavora con noi, accoglie i nostri ragazzi nel periodo di stage. E che sia lui a dire agli altri “so che la vita è dura, ma puoi farcela”, ha tutto un altro peso».

Ne incontra tanti di ragazzi così, Fernando. Giovani «a rischio di esclusione sociale», come si dice oggi: tra i 16 e i 25 anni, senza diploma, in difficoltà nel trovare lavoro e integrarsi. E quasi sempre con un dato in comune: «Non hanno avuto un rapporto positivo con un adulto che li accompagni, in famiglia o fuori». Molti sono immigrati, tanti arrivano qui soli, come Mohamed. A loro, Cesal offre corsi di formazione professionale (cucina, giardinaggio, installazione di pannelli fotovoltaici): «Ma soprattutto facciamo con loro un percorso educativo, qualcosa che li prepari alla vita adulta».

In questo momento, sono circa duecento. Arrivano in gran parte dai centri di accoglienza, dalle carceri minorili o dai servizi sociali. «Ma anche per passaparola: quando vedono che uno inizia a lavorare, chiedono come ha fatto. E vengono a cercarci». Bussano alle porte di quello che, all’inizio, era a sua volta un centro di integrazione. Cesal li aiutava con corsi di lingua, sport, attività nel tempo libero. «Ma con la crisi immobiliare del 2008, tanti di loro sono rimasti per strada. Ci dicevano: ok, il tempo libero, ma abbiamo bisogno di lavorare».

I corsi sono nati così, «pensando a questi giovani senza formazione o senza diploma». Sono brevi: sei mesi al massimo, compresi due di stage, per metterli subito in condizione di lavorare. «Per loro aspettare uno o due anni è impensabile: quasi sempre devono mantenersi, e hanno bisogno di risultati subito». Teoria quanto serve, molta pratica e ore fianco a fianco «con un adulto appassionato del suo lavoro che ti insegna lavorando, un maestro». E se chiedi a Fernando cosa è un maestro, risponde allargando il campo: «Uno che ti aiuta a diventare grande. L’educazione non è solo trasmettere conoscenze: è accompagnarti a crescere. Nel lavoro e nella vita. Il maestro deve insegnarti come si fa, ma soprattutto mostrarti chi è».

Anche per lui è stato così. «Io non sono un immigrato, sono nato a Madrid. Ma questa mancanza di adulti che mi accompagnavano l’avevo vissuta pure io. Li ho trovati quando ho incontrato GS». Ha studiato da elettrotecnico, settore telefonia. L’occasione di passare a Cesal è arrivata 18 anni fa. «Ho cominciato perché nel movimento avevo scoperto un abbraccio. Non avevo chiaro cosa volesse dire aiutare quei ragazzi, ma volevo accoglierli come ero stato accolto io. E ci abbiamo messo poco per capire che la fatica più grande, per loro, era proprio questa: trovare adulti che li accompagnassero».

Educare passa da lì, da quell’abbraccio. «È un’arte difficile. Ma è una cosa che abbiamo come un assioma, nella nostra formazione. Per la mia storia l’ho imparato soprattutto da Carras (Jesús Carrascosa, responsabile di CL in Spagna scomparso lo scorso gennaio, ndr), che ripeteva sempre: “Vince chi abbraccia più forte”. E aggiungeva: “Prima si abbraccia, poi si corregge”. È verissimo. Questi ragazzi sono abituati a fare cose sbagliate ed essere puniti: ma così, dopo un po’, la correzione entra da un orecchio ed esce dall’altro. Se vedi che uno prima ti abbraccia e poi ti corregge, capisci che lo fa perché ti vuole bene. E cambia tutto».

Come per Mohamed, che ha accettato il carcere. O per Suahi, «un’altra storia che mi ha fatto imparare molto. È un ragazzone di 1,97, marocchino anche lui. Veniva al nostro corso per cuochi. Viveva fuori Madrid, in una macchina abbandonata. Ci metteva un’ora per arrivare a scuola. Noi iniziamo alle 9, e se arrivi tardi non puoi più entrare. A lui capitava spesso. Lo accoglievamo, poteva riposarsi, fare la doccia, ma niente lezioni. Gli dicevo: “Guarda che se non cambi su questo, non potrai mai lavorare”, ed era vero. Però tra me pensavo: “Ma è giusto? Questo ragazzo ha dormito in macchina, al freddo, si è fatto un’ora di bus: puoi punirlo perché arriva con cinque minuti di ritardo?”. È volendogli bene che ho capito quanto fosse un bene per lui correggerlo. E lo capiva anche lui: perché voleva essere trattato come gli altri, non guardato solo per le sue difficoltà». Anche Suahi oggi lavora in un ristorante. E accoglie i nuovi ragazzi di Cesal che arrivano in cucina per gli stage.

Sono diversi i ragazzi di oggi da quelli dell’inizio? «Tanto. Quindici anni fa arrivavano giovani dall’America Latina, spesso per ricongiungersi alle madri che erano già qui. Magari avevano vissuto con i nonni, senza padre… Tanti finivano nelle gang, per trovare la famiglia che non avevano mai avuto. Ora vengono quasi tutti dall’Africa. Spesso hanno 12-13 anni. Quasi sempre una famiglia lì c’era, mentre qui non hanno punti di riferimento». Un po’ come quel 30% di ragazzi spagnoli che partecipano ai corsi di Cesal: «Vengono quasi tutti da famiglie spezzate». Lavorare con loro, dice, è diverso: «Quando riconoscono che c’è qualcuno che gli vuole bene e li vuole aiutare, si affezionano subito. E ti seguono. Può sembrare un paradosso, ma più hanno bisogno, più il percorso si fa rapido».

E tu, come sei cambiato? Fernando ci pensa qualche istante. «Guarda, ti racconto questa cosa che mi è appena successa. Tempo fa un ex alunno, che è stato in carcere e ora dirige tre ristoranti, mi ha detto: “Il vostro lavoro salva la gente”. Mentre l’altro giorno un collega, a una riunione in cui discutevamo di un ragazzo, diceva: “Tranquilli, perché non siamo noi a salvare la loro vita”. Io ci ho pensato un bel po’, e mi sono detto: sono vere tutte e due le cose. Non siamo noi a salvarli, è evidente; ma il nostro lavoro – le nostre decisioni – possono aiutarli a salvarsi. Siamo strumenti di salvezza. Ed è bellissimo». Perché? «Perché questo equilibrio strano è lo spazio in cui posso fare entrare di continuo Cristo, che opera attraverso il mio lavoro».

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Vale anche per un altro pezzo di lavoro, fuori dal lavoro. Accade nelle celle di Soto Real e di Meco, le carceri dove lui e tanti amici – di Cesal e non solo – vanno a fare caritativa. «Quando abbiamo cominciato con i ragazzi delle gang, molti finivano lì. Noi andavamo a trovarli. Dopo un po’, i responsabili ci hanno detto: invece di guardarli attraverso un vetro, perché non passate del tempo con loro?». La caritativa è nata così, cinque anni fa. «Non facciamo nulla di particolare: stiamo con loro. Certo, ne incontriamo tanti che quando escono, ti chiamano: “Sono libero, aiutami a ricominciare”. E ho chiesto a Cesal di organizzare un programma di accompagnamento a questi ragazzi dentro. Ma il punto non è questo». E qual è? «Questa mattina eravamo lì, ed è successo un casino. Hanno litigato… Una mezza rissa. Io ero triste, mi dicevo: “Ma serve davvero a qualcosa?”. Però, quando siamo usciti, tutti ci hanno detto: “Grazie di essere venuti”. Siamo solo stati lì, e pensavo fosse inutile… E invece l’educazione è così: imprevedibile. Come un abbraccio».