La copertina di "L'io rinasce in un incontro"

Uomini che rinascono adesso

Il quinto volume che raccoglie i dialoghi tra Giussani e gli universitari a fine anni Ottanta. Abbiamo chiesto a Michele Faldi, tra i protagonisti di quel periodo, di raccontarci «il metodo che ci ha fatti diventare grandi» (da Tracce, luglio-ago
Paola Bergamini

«Formidabili quegli anni!». A cinquanta di anni, sfogliando l’ultimo libro delle Equipe del Clu L’io rinasce in un incontro (1986-1987), si può avere questo pensiero, quasi a fare il verso al famoso libro di Mario Capanna. Maggiormente se li si è vissuti da protagonista. Ci si può fermare al ricordo, magari devoto. Ma sempre ricordo. Oppure, quelle pagine, finita l’esperienza universitaria, indossate giacca e cravatta, messi su famiglia e lavoro, sono la propria vita, ora. Perché «la vita è il compimento di un sogno di giovinezza», come disse Giovanni XXIII ai giovani nel 1960.
Michele Faldi, oggi direttore di Alta Formazione e Alte Scuole all’Università Cattolica di Milano, era tra i protagonisti degli anni di queste Equipe (incontri che periodicamente gli universitari facevano con don Giussani). Mentre guarda la copertina mi dice: «Questo libro può essere frainteso, se letto come un pezzo della nostra storia pregressa. Con la domanda: “Vediamo cosa è successo”. Invece, è la modalità offerta a tutti di vedere come Giussani si relazionava con le persone. A ragazzi di 20-25 anni. Come l’esperienza del cristianesimo, dell’avvenimento di Cristo, fosse il tema della vita di quei giovani, e come può esserlo esattamente allo stesso modo oggi. Ancora oggi è possibile fare lo stesso tipo di lavoro su di sé, di paragone rispetto all’esperienza, e immedesimarsi in quello che Giussani ha fatto, esattamente come 25 anni fa. Quelle pagine hanno un’attualità totale, nel senso che ci sono certi passaggi - responsabilità, l’io e la compagnia, l’esperienza che facciamo e il mondo - che sono identici a ciò che è emerso agli ultimi Esercizi della Fraternità». Altro che devoto ricordo.
Nel 1986 Michele è il responsabile della comunità della Cattolica. A giugno si laurea in Lettere moderne con una monumentale tesi in Filologia romanza, battuta a macchina - la stampa ad aghi dei computer era out per l’ateneo di largo Gemelli - da tre amiche della comunità che, per un mese, accantonano gli esami per aiutarlo. Negli studi è quello che si definisce una testa fina. Per la comunità, oltre che il “capo”, è famoso per i “frizzi”, gli sketch comici che inventa durante le vacanze o alla fine degli incontri.

Dopo la laurea decidi di fermarti in università.
Sì. Giussani aveva suggerito questa idea: perché non immaginare che quelli che erano studenti potessero, un domani, diventare docenti? L’unica modalità era il perfezionamento all’estero attraverso una borsa di studio. Oltretutto, la cosa era interessante perché in quel momento c’era il boom delle comunità del movimento fuori Italia. Così, per un anno studiai in vista del concorso, mentre continuavo a fare il direttore del Centro Culturale San Carlo (l’attuale Centro Culturale di Milano; ndr). E a rimanere in università. Il concorso non andò a buon fine. Fino all’89 rimasi al Centro culturale e poi all’Istra (Istituto di Studi per la Transizione), rilanciato in quegli anni da Giussani come ipotesi di un Centro studi a supporto di tutte quelle attività intellettuali che stavano emergendo, come i centri culturali. Nel 1991 per me si riaprirono le porte della Cattolica. Non come docente, ma con altre opportunità lavorative.

Insomma, una vita in università. Ma cosa era il Clu negli anni di queste Equipe?
Era l’ambito dove viveva don Giussani, cioè l’ambito dove la riflessione sull’esperienza del movimento era più acuta. Questo non per le capacità o l’intelligenza di chi - come noi - era in università, ma per il semplice fatto che c’era lui. Era il livello più maturo dell’esperienza del movimento. In quegli anni c’è anche un aspetto contestuale da tener presente. La Compagnia delle Opere, con tutto quel che concerne il mondo del lavoro, vede la luce proprio nell’86, quindi è all’inizio; il Movimento Popolare era “tarato” solo sulla presenza politica; il Meeting di Rimini era una esperienza a latere per il Clu, anche perché l’Equipe si svolgeva in parte negli stessi giorni. Il Clu era il punto dove Giussani costruiva il movimento.

Come era il vostro rapporto con lui?
In Cattolica era il docente di Introduzione alla teologia. Lo vedevamo tre volte alla settimana a lezione, negli intervalli e nell’ora di ricevimento. Stavamo pressoché costantemente con lui. Sottolineo: avevamo 20-25 anni. Ma era l’alfa e l’omega, il punto di riferimento cui guardare per l’esperienza che facevamo. In quegli anni, personalmente si confermava quello che da matricola, alla prima lezione del corso, avevo sentito da lui: «Non voglio essere qui per convincervi delle cose che dirò, ma perché desidero che la vostra esperienza si paragoni con quello che vi dirò».

Come erano organizzate e in cosa consistevano le Equipe?
Erano tre durante l’anno. Due di un paio di giorni e una terza estiva, più lunga. Erano un punto di verifica di quello che si stava vivendo. Erano la possibilità per i responsabili di tutta Italia, e anche dall’estero, di raccogliere le idee su quello che si era vissuto e di affidarlo nelle mani di don Giussani. In questo senso, la caratteristica di questo libro, come dei precedenti, è di far emergere come don Giussani non avesse un’idea precostituita della conduzione del Clu, del movimento. Nulla nasceva a tavolino, ma dal suo paragonarsi con l’esperienza di chi aveva intorno. Per noi era la possibilità di stare con lui condividendo i problemi della vita. Che, per un universitario, erano: lo studio, la fidanzata, l’idea del futuro - se pur confuso - e tutto ciò che dalla realtà emergeva. Questi i temi che ci costringeva ad affrontare perché, come continuava a ripeterci, è dalla realtà che emerge il dato. L’Equipe veniva convocata su un ordine del giorno che decidevamo insieme. Noi facevamo delle proposte e lui le confermava o meno. Ma era solo uno spunto.

In che senso?
Non c’era niente di schematico o precostituito. Per cui, se dall’invio dell’ordine del giorno all’inizio dell’Equipe avveniva qualcosa di particolare, non c’era nessun problema a mollare tutto per andare sul dato che prepotentemente emergeva. Era una vita in atto. L’ordine del giorno era un aiuto a dare un giudizio su quello che si stava vivendo e a paragonarlo. Per questo erano importanti le assemblee. Dove ne venivano fuori di tutti i colori. Sono la documentazione del paragone libero senza pre-giudizi rispetto al lavoro che si faceva insieme a lui.

Don Giussani come affrontava questo “lavoro”?
Innanzitutto bisognava partire da fatti e dati, per tentare di dare un giudizio. Se si accorgeva che questo non avveniva, bloccava chi stava parlando. Allo stesso modo, fermava là dove coglieva un aspetto di verità importante. Nel 99% dei casi percepiva quello che veniva detto anche più profondamente di chi stava intervenendo. Inoltre, faceva alzare la testa su quello che accadeva. Perché non poteva sussistere separazione tra l’esperienza della persona, l’esperienza della comunità e “tutto il resto”.

Puoi fare un esempio?
Chernobyl.Tutti sapevamo cosa era successo. Non forse tutta la gravità della situazione, perché dall’Urss le notizie trapelavano con difficoltà. Lui genialmente tirò fuori l’idea dell’uomo di Chernobyl: apparentemente integro, ma distrutto dentro. Rimanemmo colpiti dalla sua attenzione alla realtà. La genialità profetica di quel giudizio la si coglie adesso. Lo vedo nelle nuove generazioni: non sono stupidi, ma hanno un livello di disgregazione dell’umano impressionante. Certo, al momento non capivamo fino in fondo. Come sempre, te ne accorgevi dopo.

Quando si rientrava in università?
Sì. La cosa più entusiasmante dell’Equipe, secondo me, non era neanche tanto parteciparvi, ma, tornati a casa, in comunità, facendo le cose di tutti i giorni, dopo tre o sei mesi, accorgersi dentro l’esperienza, facendone esperienza, di ciò che aveva detto. E questo perché nel nostro tentativo raffazzonato di raccontare la vita, don Giussani, essendo un genio religioso ed educativo, coglieva dei segni e ne indicava lo sviluppo. Indicava “il passo” da fare, ma poi lasciava alla libertà dell’esperienza di ciascuno. In noi non c’era la preoccupazione di capire tutto. Come non c’era l’idea che le Equipe fossero una sorta di scuola quadri per responsabili, che poi avrebbero proiettato i contenuti nelle comunità. Lo ha spiegato bene padre Aldo Trento all’Assemblea responsabili a San Paolo, quando ha raccontato come anche in anni non lontani era subentrata la preoccupazione di imparare in Italia i contenuti di don?Giussani, per poi applicarli in Sud America. Il problema non è applicare dei contenuti, ma vivere ciò di cui si sta parlando. Meglio: il punto non può essere la conduzione, ma un rapporto. E, in forza di questo rapporto, vivere là dove si è. Questo era il fascino per noi di stare con don Giussani. Per osmosi, apprendevamo un metodo. Così siamo diventati grandi.

Durante l’Equipe estiva c’era sempre una serata dedicata ad un momento culturale. Nel 1987, ad esempio, ci fu l’incontro con il dissidente cecoslovacco Vaclav Belohradsky.
Don Giussani era rimasto colpito da un suo libro pubblicato da Jaca Book. Aveva colto una scintilla importante della sua idea di potere. Per questo aveva voluto conoscerlo e invitarlo. Aveva questa capacità d’incontrare le personalità più disparate. Il volantone di Pasqua di quell’anno riportava proprio un brano di Belohradsky. E questo fa cogliere una cosa fondamentale: il volantone era uno strumento importante, innervato nella vita della comunità tanto da diventare contenuto all’Equipe.

Come avvenne con l’Icaro di Matisse del 1986, il punto rosso dell’Equipe estiva.
L’idea del punto rosso, del cuore e delle sue esigenze, emergeva dal lavoro della Scuola di comunità: Il senso religioso, pubblicato in forma ampliata dalla Jaca Book con, ad esempio, le premesse svolte durante le lezioni del primo anno di corso, che solo gli studenti della Cattolica conoscevano.

Nell’84 aveva preso il via la tua carriera di “frizzista”. L’ultima sera, insieme ad altri amici, avevi il compito di riprendere ironicamente quanto emerso durante quei giorni. Mai stato teso, con la paura di “toppare”?
(Sorride). Don Giussani era sempre in prima fila. Ho ben presenti le sue risate. Per lui era sempre una sorpresa. Prima non gli dicevamo nulla. E lui non voleva sapere nulla. Ero teso? La vita era una tensione permanente. Anzi, un avvenimento. Per questo affascinante. Quando nel 1985 al Meeting disse: «Auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli», ebbi la percezione che era una grazia, poter vivere così. Questo era il cristianesimo che ci aveva abbracciato. Allora come oggi.