Olivier Roy

Olivier Roy. La rivolta e la profezia

Occidente, islam. E trasmissione del senso. Il politologo francese, ospite venerdì 25 al Meeting, in un'intervista pubblicata su "Tracce" di luglio/agosto. «Siamo tutti attori protagonisti della stessa scena, non ci sono due mondi separati»
Maurizio Vitali

Olivier Roy, classe 1949, francese, è politologo, orientalista e islamista tra i più prestigiosi, oltre che autore di libri di successo. Insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze ed è consigliere scientifico presso il Robert Schuman Centre for Advanced Studies. Ha lavorato come consulente del Governo francese, dell’Onu, dell’Ocse, di cui è stato rappresentante in Tagikistan.

Un tema su cui Roy si concentra molto è la crisi della trasmissione dei valori religiosi e culturali ai giovani, in particolare alle cosiddette “seconde generazioni”. Un “taglio” di riflessione che casca a fagiolo rispetto al Meeting per l’amicizia tra i popoli di quest’anno (Rimini, 20-26 agosto), che ha per titolo “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. Olivier Roy ha accettato di intervenire ed il suo apporto si preannuncia sicuramente prezioso.

Roy non ha studiato solo sui libri, ma sul campo, viaggiando molto e tuffandosi con curiosità e senza remore a conoscere popoli e culture. La prima volta a 19 anni, quando partì in autostop per Kabul, piantando a metà gli esami. Nei mesi precedenti aveva studiato persiano sui libri, senza sapere quale fosse la pronuncia perché non aveva dischi («ma ho constatato nel viaggio che capivo e mi facevo capire abbastanza»). Gli unici occidentali che andavano da quelle parti, si era nel 1969, erano hippies in cerca di Oriente utopico e hashish facile. Quando si trattò di laurearsi (in Filosofia), Olivier Roy propose una singolare tesi su Leibniz e la Cina, perché s’era incuriosito per la corrispondenza del filosofo con i missionari gesuiti. Ah be’, nel frattempo Olivier aveva già studiato anche il cinese.

A 68 anni, lo studioso e politologo di fama è curioso e disponibile come un giovane che ha il mondo davanti da scoprire. Nel suo studio all’Istituto europeo, dove la quieta Firenze delle colline scivola in Fiesole, la scrivania è, alla maniera dei vecchi cronisti, ingombra di un alto multistrato scomposto e creativo di libri e carte. A malapena trovano posto in questo disordine la tastiera del pc (il quale, per ironia della lingua di Roy, si chiama ordinateur) e qualche bottiglietta d’acqua da cui sorseggia un paio di volte.

Fra i suoi libri più recenti tradotti in italiano si trovano Islam alla sfida della laicità, edito da Marsilio, La santa ignoranza. Religioni senza cultura e, appena uscito, Generazione Isis (entrambi da Feltrinelli). Quest’ultima pubblicazione racconta chi sono i giovani terroristi nati e cresciuti in Europa e perché scelgono la violenza omicida e suicida in nome del Califfato. In due parole, e detta un po’ alla buona, la tesi è che questi ragazzi sono violenti, non perché islamici, ma perché nichilisti e disperati. Proviamo anche a scoprire perché lo sono.

Professore, lei sostiene che l’attuale terrorismo jihadista in Europa è l’esito di un processo di «islamizzazione del radicalismo e non di radicalizzazione dell’islamismo». In altri termini, non è l’origine religiosa ma il nichilismo che spiega la scelta della violenza.
Ciò che del jihadismo affascina questi giovani è la morte, la morte degli altri ma anche la propria. Infatti compiono attentati suicidi. Credono in un paradiso dopo la morte, ma non credono nella possibilità di una vita migliore e di una società più giusta su questa terra.

Né l’islam né la civiltà occidentale offrono un ideale convincente, che dia un senso alla vita?
No.

Eppure l’Occidente abbonda di offerte di valori, di beni di consumo e di modelli di successo.
«La mia vita era vuota»: lo dicono tutti quelli che hanno scelto la jihad. Ad essi i cosiddetti valori occidentali appaiono valori ipocriti, puramente materialisti, che li lasciano vuoti e impossibilitati a realizzarsi. Rimproverano alla società di non riconoscerli. Per loro il riconoscimento non può essere ottenuto che con la morte.

Si tratta comunque di giovani per lo più nati e cresciuti nelle nostre metropoli, Parigi, Londra, Bruxelles... Sono andati a scuola qui, sono cresciuti con gli altri ragazzi europei...
Certo. Le dirò di più. Condividono la stessa cultura giovanile di tutti, nei gusti musicali, nel vestire, nel cibo, nel linguaggio; guardano gli stessi film, si scambiano lo stesso genere di video sui social, parlano lo stesso slang, frequentano le stesse discoteche, comprano fumo dagli stessi pusher, fanno il filo alle ragazze come tutti gli altri. Nessuno di loro si sogna di combattere contro la povertà, l’oppressione. Nemmeno contro l’islamofobia, il che ci appare un bel paradosso.

E la tradizione culturale e religiosa delle loro famiglie di origine non offre la prospettiva di una propria fisionomia, una propria identità? Muoiono gridando «Allah Akbar»...
La verità è che c’è una forte crisi di trasmissione. I genitori il più delle volte non sanno come trasmettere il loro credo e la loro cultura. Nemmeno conoscono davvero bene l’islam autentico. Conoscono magari riti e pratiche apprese, che so, in un quartiere marocchino, proprie di un contesto socio-culturale che non esiste più, certamente non in Francia. Per i futuri jihadisti l’islam è un’etichetta, ma non una realtà veramente conosciuta. E i genitori spesso appaiono loro come portatori di un islam cattivo, folcloristico e superstizioso. Vedono madri che osservano il Ramadan ma preparano i dolci con cui far bisboccia dopo il tramonto. Vedono padri che parlano di Dio e poi bevono alcol. Chiedono: ma perché siete venuti in Francia? «Per una vita migliore», si sentono rispondere. «No, questa non è una vita migliore». Insomma, dalla tradizione non viene loro nessuna attrattiva. La ribellione estremista di questi giovani è una rivolta generazionale.

E il Daesh, allora, cosa c’entra?
Il Daesh fornisce una estetica della violenza che rende attrattivo il gesto estremo del nichilista. Si badi, un’estetica del tutto moderna, in linea con lo stile dei film americani (nei quali il sangue ormai prevale nettamente sul sesso) e dei video-games in voga. Lo sgozzamento effettuato e trasmesso con grande messinscena, la tortura filmata e spiegata da una voce fuori campo, è un format molto utilizzato dai narcos messicani. Archetipi e moduli di questa estetica sono molto occidentali.

Dunque la fascinazione della violenza e della morte vengono essenzialmente da vuoto e disperazione.
Esattamente. Questi giovani sanno di non poter essere felici. Nemmeno sessualmente, nemmeno facendo famiglia. È assai singolare che alcuni terroristi hanno messo al mondo un figlio nell’anno stesso dell’attentato, mentre già lo stavano organizzando. Si ha una moglie, una compagna, un figlio senza goderne e gioirne. E con la morte li si abbandona all’organizzazione o... al loro destino. Attenzione. Tutto ciò è contrario all’islam, che notoriamente è molto familista. E che condanna il suicidio perché nega la volontà di Dio. C’è indubbiamente una problematica esistenziale molto forte alla base di tutto.

Musulmani in Francia

Anche il ’68 europeo e americano fu in origine una rivolta generazionale, contro i valori tradizionali e le istituzioni borghesi. Dove sta la differenza?
Il ’68 fu utopista, non nichilista. Inseguiva il desiderio di una società felice. Inoltre, non ci fu una rottura totale della trasmissione di tradizioni e culture politiche: in Italia e Francia i movimenti della contestazione assunsero quasi tutti la tradizione dell’antifascismo e del comunismo. Le frange estreme dettero vita a formazioni terroristiche, come le Brigate Rosse, che compivano attentati e omicidi per provocare la sollevazione generale della classe operaia. Cosa che non avvenne. Dunque la mancanza di un nesso con un retroterra ha segnato la fine della loro azione. Anche i terroristi jihadisti sono distantissimi dal retroterra, ma questo non ferma la loro azione che, appunto, non ha obiettivi politici né utopici.

I politici mettono sempre l’accento sulla sicurezza. Garantita, si fa per dire, con più forze dell’ordine e con muri. È una risposta?
Per prevenire gli attentati e la violenza del terrorista jihadista bisogna comprendere che cosa arma la bomba di ribellione omicida e suicida che è in lui. Non bisogna iscrivere questa bomba in un paradigma religioso. Come sempre dico, la radicalizzazione viene prima. Non scordiamo le stragi compiute da giovani suicidi negli Stati Uniti, per esempio, nelle scuole del Colorado (Columbine 1999, 15 morti), Virginia (Balcksburg 2007, 33 morti) e Connecticut (Newtown 2007, 28 morti). Non scordiamo che nonostante questo non si riuscì a imporre per legge il divieto di portare armi da fuoco a scuola in tutti gli Stati: il Texas, per esempio, si oppose. Stragi del tutto simili nella sceneggiatura e nell’uso dei media agli attentati di ora, che non c’entravano nulla con l’islam.

Chi ha più il dovere di interrogarsi, l’islam o l’Occidente, o il cristianesimo stesso?
Tutti. Siamo tutti attori protagonisti della stessa scena, non ci sono due mondi separati. Il problema che ci riguarda tutti è la crisi della trasmissione dei valori, del senso di sé e del mondo. Questa crisi investe anche le religioni. Determinante non è la secolarizzazione in sé, perché il cristianesimo e anche l’islam hanno mostrato di potersi “adattare” alla società secolarizzata, ed esservi presenti senza rinnegare la propria identità. Determinante è invece la deculturazione, la separazione della religione dalla cultura, la sconnessione con la vita reale delle persone... Perché è verissimo che la religione non è una cultura - il cristianesimo è un annuncio, un avvenimento -, ma non può non esprimersi culturalmente nelle condizioni date.

Si può dire che il suo concetto di deculturazione del religioso sia simile alla separazione della fede dalla cultura che additava Paolo VI o a quella tra il sapere e il credere che indicò Benedetto XVI?
Sì. Il divorzio tra religione e cultura contiene germi di violenza fondamentalista perché elimina la “zona grigia” dell’incontro e della reciproca comprensione. In Francia se un Vescovo in un discorso pubblico dice «grazie a Dio» o qualcosa del genere, viene subito tacciato di essere un fanatico. In Italia questo fenomeno non è al momento eclatante, perché la Chiesa “fa ancora parte del paesaggio”. La deculturazione della religione in Italia è meno drastica e violenta, e ciò dà ragione della minor violenza religiosa. In Francia è più forte perché la laicité è antireligiosa e molto aggressiva. Questo spiega perché molti dei terroristi - non solo in Francia, ma anche quelli che hanno operato a Londra - sono francofoni. La laicité ha tollerato il velo come il cous-cous delle anziane nonne marocchine; non quello portato a scuola da giovani ragazze nate in Francia. Vale a dire: ha preteso e pretende dall’islam una formattazione immediata, un’integrazione nei nostri schemi senza aver nulla da proporre o offrire in cambio.

La deculturazione, smussando le differenze culturali, non favorisce piuttosto l’integrazione e il dialogo?
Al contrario. La deculturazione del religioso trasforma in barriera lo spazio tra il credente e il non credente; in cambio, il credente appare assurdo se non fanatico al non credente. Una volta preso atto della rottura tra religione e cultura, ne può conseguire il ripiegamento in un “puro religioso”, che facilmente assume le forme del fondamentalismo. Gli evangelici in campo cristiano e i salafiti in quello musulmano per tutelare la purezza della fede vogliono sbarazzarsi tout court della cultura dominante. Di fatto ignorano volutamente la cultura. È quella che io chiamo Santa Ignoranza. Devo dire invece che i cattolici romani, in generale, cercano di restare legati alla cultura e di mantenerla nel campo religioso.

Che fare, dunque? Quali strade intraprendere per affrontare la sfida?
Per conto mio la strada è ri-socializzare e ri-acculturare la religione. La religione deve cercare la “riconnessione” con le persone e la loro esistenza nella realtà, sola alternativa alla ghettizzazione del religioso. Lo Stato non deve dire in che cosa la religione deve riformarsi, che cosa deve credere o fare (per esempio non può decidere se la circoncisione può o non può essere fatta, come fece il Tribunale di Francoforte nel 2013). Le società civili devono assicurare le condizioni di base, e le regole del gioco, per una laicità non aggressiva, in cui la religione possa avere adeguata visibilità nello spazio pubblico.

E fra le religioni?
Fra le religioni si deve favorire lo scambio e la condivisione. Stimo un prete austriaco che porta gruppi di islamici a far visita ai monasteri del Tirolo, per mostrare cos’è il cristianesimo. A mio avviso in Europa l’islam, per contrastare la sua deculturazione, ha bisogno soprattutto di imam preparati e colti che aiutino davvero una riconnessione tra islam e cultura, tra la religione e la vita consapevole dei fedeli nelle società occidentali. I più sono, invece autodidatti improvvisati. Ci dovrebbe essere spazio per facoltà o corsi di teologia islamica. Problema grave soprattutto fra i sunniti: fra gli sciiti c’è chi ha letto Kant o Marx, fra i sunniti no.

E come può rimettersi in moto un processo di “trasmissione”, di comunicazione della religione, vorrei dire un’educazione, che sia plausibile e convincente oggi?
L’Occidente tende a proporre ai giovani regole da seguire e valori percepiti come una scatola vuota. Anche i movimenti populisti richiamano alla difesa di una “identità” che alla fine è solo formale, priva di contenuto. Egualmente la religione deve evitare la scorciatoia fideista. E sui “valori non negoziabili” non serve il legalismo. Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito in Siria nel 2013, diceva: non siamo legulei, ma profeti. Condivido. Dobbiamo “avvertire” i giovani del rischio della deriva nichilista. Ma non li convinceremo con delle definizioni apodittiche. Non serve la declamazione né l’imposizione, quello che occorre è la profezia, cioè la testimonianza.