Franco Bonisoli. Il perdono addosso
Da "Tracce" di luglio-agosto, l’ex terrorista delle Brigate Rosse nel commando di via Fani racconta il suo cammino: un muro di ideologia sgretolato da «accenti di umanità». L’abbraccio del figlio di Bachelet, l’amicizia di Agnese Moro...Settembre 1974. In un blitz dei carabinieri vengono arrestati Renato Curcio e Alberto Franceschini, capi delle Brigate Rosse. Un fatto che dà uno scossone all’organizzazione terroristica, al punto che dopo qualche giorno, Mara Cagol, moglie di Curcio, dice a Franco Bonisoli: «Se vuoi tornare a casa, sei ancora in tempo. Non sappiamo cosa accadrà domani». Franco ha diciannove anni, ma le parole della brigatista non scalfiscono la scelta che ha fatto da poco: la clandestinità. La militanza attiva nel Partito comunista, prima a scuola e poi in fabbrica, ormai gli sta stretta. È un giovane brillante, i suoi genitori, operai, di fede comunista, sono orgogliosi di questo figlio, diplomato a pieni voti alle scuole serali, che fa politica e si batte per gli ideali del partito. Ma per lui non è sufficiente. Ci vuole di più. Ci vuole la rivoluzione contro il sistema, contro lo Stato. Per cambiare definitivamente. Per questo si arruola nelle Brigate Rosse che ha conosciuto a Reggio Emilia, la sua città. Vuole dare tutto di sé. E per lui, in quel frangente storico, quel “tutto” ha un nome: lotta armata.
Sono gli anni di piombo, gli anni bui della Repubblica. Gli attentati e i sequestri a matrice terroristica sono all’ordine del giorno. Franco fa parte del comitato esecutivo delle Br. Non si tira mai indietro. O tutto o niente, come tutti i giovani che scelsero la lotta armata. Nel 1978 partecipa alla strage di via Fani, dove viene sequestrato Aldo Moro; anche dal suo mitra partono i colpi che uccidono gli uomini della scorta. Cinque mesi dopo l’uccisione del presidente della Dc, è arrestato nel covo milanese di via Monte Nevoso. Condannato a quattro ergastoli, a metà anni Ottanta si dissocia dalla lotta armata e la carcerazione viene commutata in una pena a termine.
Ma durante la detenzione nelle carceri speciali, attraverso degli incontri imprevisti qualcosa inizia a incrinarsi dentro di lui. Quegli ideali per cui avrebbe dato la vita e per cui aveva tolto la vita a persone innocenti perdono consistenza. Si apre una voragine. Sembra la fine di tutto. Invece è l’inizio di una «seconda vita», come oggi ama dire.
Con lui, che dal 2001 è un uomo libero, abbiamo ripercorso il cammino che lo ha portato a diventare amico di Agnese Moro, figlia dello statista ucciso. E che gli fa pronunciare la parola «perdono», come dono ricevuto e poi ridato.
Partiamo dall’inizio di questa storia. Perché la decisione della clandestinità?
È stata innanzitutto una scelta esistenziale. Volevo donare la mia vita per quello in cui credevo, essere coerente fino in fondo con gli ideali rivoluzionari a cui avevo aderito. Una scelta totalizzante che via via è diventata una spirale da cui era impossibile uscire, perché se ti fermavi a pensare e affioravano i dubbi, affiorava la paura di te stesso. Ma i dubbi e la paura erano segni di tradimento. Questo non era possibile. E chi cedeva era un elemento spurio in un corpo sano, non capivamo che il meccanismo di idee che avevamo creato era di per sé sbagliato. L’errore era all’origine. È la morsa dell’ideologia. E più il regime carcerario era duro - i Kampi, come chiamavamo le carceri di massima sicurezza -, più ci convincevamo che i nostri ideali erano giusti, che dovevamo andare contro.
Ma a un certo punto qualcosa accade.
Sono gli anni dei processi, che per noi erano il momento per incontrarsi, fare il punto della situazione e ridare la linea quando si rientrava nelle carceri di provenienza. Praticamente erano una forma di congresso. Nel contempo, per l’arroganza che ci contraddistingueva, “processavamo” i magistrati. Insomma, eravamo sempre in lotta. Nel marzo 1983 Giuseppe Suraci, direttore delle Vallette, il carcere di Torino dove eravamo stati trasferiti, ci dice: «Facciamo una commissione di detenuti con tre di voi. Raccogliete i problemi, poi venite e ne parliamo». Questa sua apertura al dialogo ci disarmò. E non si fermò a questo. Un giorno mi porta Nicolò Amato, il pm che al processo Moro aveva chiesto 36 ergastoli e con cui mi ero scontrato più volte: lui deteneva l’ordine, io lo sovvertivo. Ed ora era lì con la carica di direttore del sistema carcerario italiano. Suraci lo aveva convinto a venire. Sulla porta della cella parlammo a lungo. Io rimasi sulle mie posizioni ideologiche “pure”, ma qualcosa non quadrava. E poi c’è la storia delle donne... le nostre compagne.
Ebbero un ruolo importante?
Fondamentale. Le lettere che noi uomini scrivevamo erano piene di “rivoluzione”, di “strategie”, di “lotta”, eccetera. Invece, a un certo punto, loro iniziarono a inserire le parole “amore”, “dolcezza”. Sempre a Torino, nel muro che divideva la parte femminile da quella maschile c’erano dei fori attraverso i quali ci parlavamo e dove le donne facevano passare braccialetti, catenine. Erano accenti di tenerezza, di umanità segni di qualcosa che stava cambiando.
Qualcosa si stava sgretolando?
Sì. I gruppi armati, erano sempre più allo sbando o nella morsa di un discorso autoreferenziale, la rivoluzione delle masse non esisteva più. Quando rientrai a Nuoro, sempre nel 1983, dopo l’esperienza di dialogo e apertura delle Vallette fui preso da una profonda crisi interiore che andava oltre il razionale. Le granitiche certezze, che mi avevano sorretto sino allora, si sgretolavano. Non mi riconoscevo più nella lotta armata, ma soprattutto e nonostante si iniziasse a parlare di amnistia, non pensavo che fosse possibile un mio rientro nella società. Non era per me.
Perché?
Avevo rovinato la mia vita, quella della mia famiglia, avevo trascinato in questo disastro tanti compagni e poi soprattutto le vittime, che iniziarono a pesare come un macigno. La mia esistenza era persa. Cominciai a vivere con la morte accanto, a pensare che la mia vita si doveva chiudere con la fine di quel sogno rivoluzionario a cui avevo dato tutto. Alla sera, da solo in cella, pensavo e piangevo. Non c’era soluzione. Poi, durante un passeggio, incontrai Franceschini. Cominciammo a parlare.
Cosa disse?
Che si sentiva la morte accanto. Esattamente come me. Mi raccontò dell’incontro con don Silvio Mesiti, cappellano del carcere di Palmi. In quei giorni, leggemmo sul Corriere della Sera di un convegno di cappellani dove si parlava di dignità umana. Anche per i carcerati. Ne parlammo con il nostro cappellano, don Salvatore Bussu, un uomo semplice che per anni pazientemente aveva inserito dentro lo spioncino delle nostre celle dei biglietti per cercare un dialogo. Ci trattava come persone, che avevano sbagliato, ma uomini.
Proprio a Nuoro nel dicembre 1983 iniziaste lo sciopero della fame. Cosa volevate ottenere?
Nulla. Era una “scelta di vita”. Avevamo rotto la spirale di odio e violenza sottraendoci ad essa. Ci eravamo fatti “l’anello debole”, spiazzando tutti. Nella lettera a don Salvatore scrivemmo: «Dove ci succhiano gocce di vita cominciamo a riprenderci la nostra vita, mangiando il nostro corpo».
E lui?
Era preoccupato per noi, per dei terroristi. Teneva alla nostra vita. Impensabile. Se io non sono morto, è per quell’umile prete. Eravamo sotto Natale e don Salvatore decise che non avrebbe celebrato la messa perché dei suoi “fratelli” stavano morendo. Tutti i giornali ne parlarono, cominciò la passerella dei politici. Via via altri compagni aderirono.
Perché lo fecero?
C’era bisogno che qualcuno avesse il coraggio di dire: «Compagni, è finita». Non come i collaboratori di giustizia - io la penso così - per un interesse personale, ma giocando la tua pelle fino in fondo. È stato l’inizio del mio passaggio al Purgatorio. Si è aperta per me la possibilità di una seconda vita attraverso degli incontri, dei fatti che io, da ateo, definisco provvidenziali.
Uno in particolare?
Con Giovanni Bachelet (figlio di Vittorio, ucciso dalle Br nel 1980, ndr.). Quando mi ha visto mi ha abbracciato e mi ha chiesto dei miei figli. Mi potevo aspettare distacco, arroganza, anche insulti, e invece mi parlava di ciò che avevo di più caro al mondo. In momenti come questi, prendi coscienza dell’errore compiuto e non hai più la giustificazione: «L’ho fatto per un ideale». E nello stesso tempo ti senti il perdono addosso. Non a parole, ma come qualcosa che ti viene ridonato.
In questa “risalita”, a un certo punto, avviene una scelta importante: la dissociazione.
Sì. La scelta ci fu di fatto con lo sciopero della fame. Da lì ho iniziato a rivisitare criticamente il mio passato, fino a dire apertamente: «Sono uno sconfitto, perché l’errore è insito nella scelta della violenza», portando la critica fino in fondo. Butti via la corazza, il ruolo che avevi. Ti prendi tutte le tue responsabilità personali. Così inizia il dialogo con l’altro, percependone tutta la profondità, accetti di vivere e non sopravvivere. Forse è proprio questo il perdono a me stesso: mettere la mia vita, questa seconda vita, a servizio degli altri. Come le vittime o i volontari che si sono messi a disposizione riconoscendomi come persona. Cominciando questo percorso dal luogo in cui mi trovavo ancora: il carcere.
L’incontro con le vittime è iniziato in carcere ed è proseguito dopo la scarcerazione definitiva nel 2001, usufruendo dei benefici della legge sulla dissociazione e della nuova legge di riforma penitenziaria.
E continua. Il dialogo con queste persone, segnate dal dolore, l’ho cercato da uomo libero, perché volevo donarmi senza nessun condizionamento. Un lungo percorso che per me è culminato nell’amicizia con Agnese Moro.
Come è accaduto?
Partecipavo agli incontri tra vittime e responsabili della lotta armata di cui si parla ne Il libro dell’incontro (vedi Tracce, 1/2016). Padre Guido Bertagna, uno dei fautori di questo cammino durato otto anni, insisteva perché io e Agnese ci vedessimo. Ho un ricordo nettissimo della prima volta. Mi invitò a casa sua e io le portai una piantina. Parlammo tanto; ogni parola è impressa nella mia mente. Ad un certo punto le dissi che poteva chiedermi qualunque cosa. Rispose che non aveva richieste particolari, voleva che le parlassi della mia famiglia, del mio impegno sociale oggi. Rimase colpita quando le raccontai che, ancora in carcere, utilizzavo i permessi per andare a parlare con i professori di mio figlio. Le interessavo io, la mia vita oggi. Ecco, il perdono è passato attraverso quell’incontro: lei si è donata a me fino al punto da non volere un luogo neutro per l’incontro, ma casa sua. Agnese ama ripetere che per avviare un dialogo bisogna essere disarmati. Così è stato. Per me, all’inizio, tutto questo è passato attraverso quel cappellano di Nuoro, che mi ha riconosciuto come persona e mi ha voluto bene in modo incondizionato.