Marco Martinelli (foto Lidia Bagnara)

Marco Martinelli. «È proprio di te che racconto qui»

Ha portato in scena i ragazzi dello slum di Kibera, per una Divina Commedia memorabile che ora è diventata anche un film. Oggi racconta di sé, di Dante, di un amore che gli ha impedito di perdersi... (da Tracce, gennaio 2020)
Anna Leonardi

Quando cammini per Kibera devi stare attento a dove metti i piedi. Lungo la strada di terra rossa, chilometri di lamiere e spazzatura tra cui si muovono galline, cani randagi e piccoli venditori ambulanti. Difficile alzare la testa e accorgersi del cielo». Marco Martinelli, regista, drammaturgo e direttore artistico di Ravenna Teatro, racconta così l’impatto con il grande slum di Nairobi, in Kenya. Eppure lui quel cielo è stato capace di guardarlo. E poi di avvicinarlo alla terra. Il suo spettacolo The Sky Over Kibera, che nel novembre 2018 ha portato 150 ragazzini a recitare La Divina Commedia nei vicoli polverosi della baraccopoli, è di fatto un viaggio che dalle viscere del mondo porta alla luce del firmamento.

Oggi quello spettacolo, nato grazie a un progetto Avsi all’interno di alcune scuole della città, è diventato un film, un mediometraggio di 50 minuti in cui Martinelli ci fa assaporare «un’esperienza che ha cambiato innanzitutto me». Anche dopo quarant’anni di Teatro delle Albe, compagnia che dirige insieme alla moglie Ermanna Montanari, e trenta di non-scuola, una pratica teatrale che mette in contatto gli adolescenti e i classici e che lo ha portato a incontrare tante realtà educative. «Kibera è una grande trincea umana dove ho potuto vedere ancora una volta il motivo per cui ho iniziato a fare questo mestiere: la possibilità di cogliere il cuore, il mistero che siamo. Noi, in fondo, non abbiamo mai voluto fare un teatro da dopo cena. Ogni volta è un rischio. Ma nel tempo ho imparato che là dove c’è il pericolo, c’è anche quello che ci salva».

Al Ravenna Festival con Ermanna Montanari (foto Silvia Lelli)

A proposito di rischi, lei è arrivato a Kibera senza un copione, senza un progetto. Ai professori e ai dirigenti delle scuole che l’aspettavano ha detto: «Non preparate niente, vengo solo a vedere»…
È il nostro metodo: dobbiamo farci piccoli per poter guardare. Solo dopo un anno di dialoghi e sopralluoghi, ho intuito che forse La Divina Commedia era il testo giusto. Così un giorno, radunati insegnanti e studenti, ho cominciato a raccontare la storia di un uomo che si è perso in un bosco. È confuso, spaventato e quando vede tre belve avvicinarsi ha paura. Ho chiesto: «Secondo voi cosa succede a quest’uomo?». In coro mi hanno risposto: «Le bestie se lo mangiano!». Allora ho detto: «Siete sicuri? Non potrebbe accadere qualcos’altro?». Un piccolino di dieci anni ha alzato la mano e mi ha detto: «Sì, quell’uomo potrebbe chiamare la sua mamma». Lì non ho avuto più dubbi: «Ma lo sai che in questa storia succede proprio così? La sua mamma gli manda un amico che lo porta fuori da quella selva».

Questo è il punto che lei chiama di “messa in vita”, cioè il teatro non “mette in scena”, ma “resuscita” i classici, li rende vivi e incontrabili.
Ezra Pound diceva che Dante è l’everyman, cioè rappresenta l’umanità intera. I ragazzi di Nairobi, pur non avendo mai letto prima un verso della Commedia, hanno capito immediatamente che l’esperienza di Dante parla alla loro. Sanno meglio di noi cos’è l’Inferno. Infatti i gironi li hanno riempiti da soli: ladri, assassini, politici corrotti, falsi amanti… Fino al nono cerchio, quello in cui Dante mette Lucifero, il male più grande: lì loro hanno voluto metterci il male fatto ai bambini.

La scena finale di The Sky Over Kibera racconta il momento in cui l’enorme fiume umano esce dallo slum e arriva alle porte del Purgatorio. Come li ha introdotti al passaggio?
Il Purgatorio è la cantica del ricominciare. La notte è terminata, si torna a scuola, si impara una nuova lingua. Per quella scena abbiamo usato dei versi di Majakovskij: «Che senso ha se tu, solo, ti salvi? Voglio salvezza per tutta la terra, per tutta la razza umana priva d’amore». E ancora: «Se si accendono le stelle, significa che qualcuno ne ha bisogno. Significa che qualcuno vuole che ci siano». Ad urlarle nel megafono c’era Kingsley, 11 anni, che, rivolto verso il corteo, lo trascinava nel cammino. Guardando la sua faccia e sentendo come vibravano quelle parole nella sua bocca, ho capito che non stava recitando. Lui quelle cose le stava vivendo. E le annunciava al mondo.

Reinventare la Commedia dentro e fuori i teatri è diventato il vostro marchio di fabbrica. A Matera, a Timisoara in Romania e a Ravenna avete riempito le strade e le piazze di cittadini che diventano i protagonisti. Il vostro è un teatro popolare?
Mi piace molto l’idea di un teatro di popolo. Un po’ come si usava nelle sacre rappresentazioni medievali e nel teatro di massa della Rivoluzione russa, dove gli artisti si mescolavano al popolo e insieme infondevano vita alla creazione. Nelle città dove andiamo, facciamo delle “chiamate pubbliche”: accorrono in tanti, ognuno con il proprio desiderio di diventare Virgilio, Beatrice, Paolo e Francesca. Durante il Ravenna Festival, per il XIII Canto dell’Inferno abbiamo presentato il coro delle “arpie” come figure non sottomesse al maschile: sono arrivate in centinaia e tutte le abbiamo messe in scena. È un ruolo che intercetta l’intimo di molte donne. La più sorprendente, quella che emetteva un grido che ti si piantava nel cuore, era una signora di 82 anni. Io ho bisogno di tanta umanità: il mio io non mi basta.

Come nascono le sue idee?
Le idee arrivano quando vogliono loro. Sono come la Grazia, sono una Grazia. Puoi aspettare per giorni e settimane e non succede niente. Ma in quell’apparente vuoto, tu intanto lavori. C’è la tua disciplina, operante e vigile. Fatta di millimetrici tentativi. Le idee sono sempre arrivate perché io e Ermanna le abbiamo in un qualche modo pregate, invocate. Poi, nel lavoro di produzione che ne segue, arrivano momenti anche drammatici, dove ti domandi perché hai deciso di andar dietro proprio a quell’intuizione… È il momento della crisi, della selva oscura.

Alla fine, come se ne esce?
Nel buio, dopo giorni di scene sbagliate, bisogna farsi muti, fiduciosi di una possibile epifania. Quando io ed Ermanna dovevamo inventarci Fedeli d’Amore, un lavoro in cui volevamo raccontare Dante sulla soglia del suo passaggio estremo, abbiamo passato mesi in bilico. La narrazione faticava a scaturire e così alla fine ci siamo chiusi in casa. Io leggevo Eliot, lei guardava Netflix. Sono stati alcuni versi di Cristina Campo a spaccare la scorza in cui eravamo imprigionati, Ermanna è saltata su: «E se fosse la nebbia a parlare?». Ho stracciato tutto ciò che avevo scritto fino a quel momento e ho cominciato a dare voce alla nebbia, protagonista dalla prima scena di Fedeli d’Amore, quella in cui Dante muore nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.

Accade così anche nella vita, nel buio esistenziale?
Dante per uscire dalla selva ha bisogno di una catena di mani. Per me sono state, innanzitutto, quelle di mio padre. Poi, quelle di Ermanna. Avevo 24 anni quando ho perso la fede. È stato il momento più tragico della mia vita. Non trovavo più quell’amoroso “Tu” con cui ero solito parlare fin da piccolo. Ho passato due anni a pensare che fosse stato tutto un inganno della mia mente. Era una ferita, una perdita che mi straziava al punto da portarmi pulsioni suicide. Mi hanno salvato Ermanna e il teatro.

Come?
Io e Ermanna ci siamo sposati a vent’anni con il grande sogno di fare un teatro “nostro”. Frequentavamo ancora l’università e ci davano tutti dei pazzi. Un anno dopo, è nata la nostra prima compagnia, “Maranathà”. Quando, poco più tardi, attraversai quel momento di oscurità, l’amore di Ermanna mi impedì di naufragare nell’insensato. Lo definisco un amore “dionisiaco”, perché la figura di Dioniso, dio del teatro per gli antichi greci, mi ha tenuto avvinto alla sostanza del sacro. Attraverso Dioniso, pian piano, ho ritrovato quel Cristo che tanto mi commuove: il grande inganno era l’insensatezza in cui ero sprofondato. «E quindi uscimmo a riveder le stelle» è il verso con cui Dante chiude l’Inferno. In realtà, già nel primo passo che ti tira fuori dall’accecamento, c’è la luce del Paradiso.

Nel suo ultimo libro, Nel nome di Dante, racconta di suo padre Vincenzo, che ogni mattino veniva a svegliarla recitandole Dante, Esopo, Totò e Guareschi…
Mio padre, pur venendo da una famiglia dell’Emilia contadina, per una serie di coincidenze, riuscì a frequentare il liceo classico. Diventò poi funzionario della Dc di Ravenna. Mi ha nutrito fin da piccolo con la sua passione, non solo per Dante, ma anche per la politica, nel suo senso più alto. Tutte queste cose mi sono entrate dentro come una musica. Lui non era mai in cattedra, io avevo davanti a me un uomo felice che mescolava cose serie e cose buffe. Come dice sant’Agostino: «Nutre l’anima solo ciò che rallegra».

Come si è giocato questa eredità?
Vincenzo mi è stato maestro senza mai mettersi in posa, da quelle mattine in cui si sedeva sul mio letto e mi raccontava storie sempre nuove fino a quando è morto nel 2009. Ancora oggi me lo tengo dentro e me ne accorgo da come desidero stare con gli adolescenti che partecipano alla nostra non-scuola. L’abbiamo chiamata così, nonostante sia un progetto formativo, proprio per indicare due condizioni imprescindibili: desiderio e libertà. Nessuno è costretto: vieni perché qualcosa in te lo desidera. È una “chiamata” a cui, per primo, devo rispondere io.

La non-scuola ha portato frutti, attecchendo nei terreni più diversi: da Nairobi a Scampia, passando da molti licei classici delle grandi città…
Ad ogni latitudine i giovani hanno sete di adulti che hanno il coraggio di fare quello che dicono. Con me non cercano il regista, ma uno pronto a rispondere del bene e del male delle cose. Uno che se ne faccia carico. A Scampia, gli assistenti sociali, mi avevano chiesto di coinvolgere Simone: 12 anni, non andava più a scuola e aveva l’intera famiglia in carcere. Ogni pretesto era buono per aizzare litigi e zuffe. Siamo andati avanti così per mesi, con lui che prendeva a calci il palcoscenico, mentre con gli altri cercavamo di mettere in scena Ubu re, di Alfred Jarry.

E poi?
Un giorno Simone mi si è avvicinato come un gatto selvatico. Eravamo seduti in gruppo e stavamo lavorando sulla scena in cui gli sgherri di Ubu dovevano uccidere il rivale. Mi ha sussurrato all’orecchio: «Un’idea su come farlo fuori io ce l’avrei, ma la dico solo a te». Ci siamo messi in un angolo dove ha iniziato a descrivermi un crescendo di violenze e torture. Un pezzo fatto e finito, a metà tra Eduardo e Gomorra. Estasiato gli ho detto: «Dobbiamo scriverlo, detta!». Prima di raggiungere gli altri, mi ha afferrato il braccio e prendendomi il foglio dalle mani, mi ha detto: «Marco, lo posso firmare?». Aveva cominciato a sentire che le cose, la vita su quel palco, poteva diventare sua.

La non-scuola quindi è un po’ come la “selva oscura”, un luogo dove ci si può incontrare e iniziare un cammino…
Il teatro è un “farsi luogo”. Nell’epoca dei “non-luoghi”, dove spesso si è condannati a essere una massa anonima o personaggi senza spessore, il teatro è il regno delle persone dove i miei occhi e i tuoi si incontrano. “Io e te insieme” è il gesto più sovversivo per il mondo di oggi. Il teatro può toccare il cuore di ciascuno, perché dice: «È proprio di te che racconto qui». E aprendosi agli altri, ci si apre all’Altro.

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Con la “A” maiuscola?
Sì, perché il teatro, come qualsiasi esperienza vera, mentre ti sradica dalla menzogna, ti radica nel Mistero. Cosa ci permette di “vedere” davvero? Forse ci vuole uno sguardo strabico: un occhio su ciò che accade qui e l’altro teso al cielo. La dimensione della “bottega quotidiana” si centra nella polis e nel Mistero insieme. Mi commuove pensare a Antoni Gaudí, che nel cantiere della Sagrada Família, stava coi piedi nel fango a guardare il lavoro di un singolo scalpellino e non smetteva di chiedere: «Signore, parlami!».



Marco Martinelli (Reggio Emilia, 1956), regista e drammaturgo, ha fondato nel 1983 il Teatro delle Albe. Dal 1991 è direttore artistico di Ravenna Teatro. Tra le sue produzioni: Pantani, Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, Eresia della felicità, Fedeli d’Amore e Maryam (scritto da Luca Doninelli). Da 25 anni si dedica al progetto della non-scuola, che avvicina gli adolescenti ai classici del teatro. Nel 2017 ha iniziato un percorso sulla Divina Commedia durante il Ravenna Festival, che terminerà nel 2021, settimo centenario della morte di Dante. Nel 2019 ha pubblicato Nel nome di Dante e ha ricevuto il premio della Presidenza del Senato per il progetto promosso da Avsi “Dante a Kibera”.