Padre Pier Luigi Maccalli

Maccalli. Le catene, il deserto e la libertà

Sequestrato per più di due anni dai terroristi islamici, padre Pier Luigi Maccalli, il missionario in Africa, racconta il dialogo con i suoi carcerieri. E con Dio (da Tracce di marzo)
Anna Leonardi

Per due anni non ha potuto fare assolutamente niente. Dalla sera del 17 settembre 2018, quando una banda di mujahidin lo ha rapito dalla sua casa, nel piccolo villaggio di Bomoanga, in Niger, portandolo via in pigiama e ciabatte, padre Pier Luigi Maccalli ha perso, insieme alla libertà, tutto il resto. Bendato, con i polsi legati, ha viaggiato per sette giorni su moto e piroghe attraversando il Burkina Faso, fino alla sua prima destinazione, un covo nella savana del Mali. Lì, su una stuoia e con la caviglia incatenata a un albero, si è sciolto in un pianto carico di perché. «Perché mi fanno questo? E perché Signore mi hai abbandonato?». Padre Gigi, originario di Crema, oggi 61 anni, è missionario della Sma, Società missioni africane. «Quelle lacrime e quelle domande sono state da subito la mia più grande compagnia. Sono state la pioggia che nel tempo della prigionia ha irrigato il mio deserto». E che gli ha regalato, come primo germoglio, il sentirsi libero, anche dentro un impedimento totale.

Dopo quei primi giorni in cui si è via via indebolita la speranza che si trattasse di un sequestro lampo, la sua prigionia si è logorata in un nomadismo perpetuo: ceduto più volte a gruppi diversi, è arrivato fino al confine con l’Algeria, nel deserto del Sahara, rovente di giorno e gelido di notte. Ha mangiato e dormito tra serpenti, topi e scarafaggi. Senza poter più celebrare la Messa, si è attaccato ai Salmi e alla preghiera del Rosario. Ha trovato delle conchiglie con cui contava le decine e due legnetti che univa a croce quando nessuno lo vedeva. La preghiera era lo spazio che lo rendeva libero. E dove, come un Giobbe moderno, ha iniziato a interrogare Dio.

Che cosa sono stati quei due anni per te e per la tua fede?
Sono stati i due anni più fecondi dei ventitré trascorsi in Africa. È un paradosso, lo so. Perché non ho più potuto fare nulla, sono diventato inutile. E ho provato rabbia per il tempo prezioso che mi era sottratto. A Bomoanga avevo aiutato nella costruzione di pozzi e di un centro per la malnutrizione. Ho sempre coniugato evangelizzazione e promozione umana per la piccola comunità. Ma la separazione da tutto mi ha cambiato profondamente. Ho dovuto mollare il timone della missione a Dio, accettare questo cambio di programma. E lasciare che le domande che credevo di aver già sistemato, tornassero a scuotermi. Perché io potessi incontrare di nuovo Dio.

Nel tuo libro “Catene di libertà” scrivi che hai gridato a Dio e che hai ricevuto il suo silenzio…
Non c’è stato giorno che non sia iniziato senza domandargli il suo aiuto. Gli dicevo: «Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta». Ma io lo attendevo come liberazione e Lui tardava. Mi sono ricordato che Simone Weil dice che nella sventura Dio lo percepiamo come assente. Ma posso dire che ho intuito proprio nell’assenza la sua presenza, perché in quel silenzio si approfondiva il mio dialogo con Lui. Questo è stato il primo segno che non mi stava abbandonando. C’era. Ed era disarmato come me. Dio non si impone, non viene a sistemare le cose. Sapevo che lo avrei visto, ma come Mosè lo avrei visto di spalle.

Cioè?
Dio si rende presente come novità. Non lo puoi circoscrivere. Se lo circoscrivi, non è più Dio, perché non è più novità. E noi non lo vediamo perché continuiamo a cercarlo con tutte le nostre immagini, con le categorie vecchie. Durante il sequestro ho appoggiato i pensieri e gli occhi su Gesù trafitto in croce per amore degli uomini, che grida: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Nel silenzio di Dio, quando non hai più niente, puoi imparare ad amare come Lui. Gratuitamente.



Cosa è accaduto nel rapporto coi tuoi carcerieri? Per loro eri un kafir, un miscredente destinato all’inferno. Per questo sei stato insultato, dileggiato, anche se non hai mai subìto maltrattamenti fisici.
Erano ragazzi giovani, “prigionieri” dell’ignoranza e dell’ideologia. Non ho mai provato rancore, ma tanta amarezza. Mi chiamavano shebani, cioè “vecchio”, ma non con il rispetto e l’affetto tipico della cultura africana. Però mi sono accorto che in loro si affacciava altro. Erano curiosi, avevano dei desideri, mi chiedevano dell’Italia, ma anche di come era il “mio” Dio e del Paradiso. Una notte, uno di loro, Abdul Haq, ha convinto il suo “socio” a liberarmi la caviglia e da allora tra di noi si è stretto un rapporto quasi di complicità. Quando ha avuto mal di denti è venuto da me e ho cercato di medicarlo con del dentifricio alla menta, che grazie a Dio, ha funzionato. Ogni notte, quando il dolore tornava a tormentarlo, mi svegliava per chiedermi il dentifricio “magico”. Così anche Bachir è venuto a cercare rimedio per la sua sinusite che abbiamo curato con dei suffumigi a base di zenzero. E poi, si è fatto avanti il più giovane del gruppo con il volto sciupato dall’acne. Gli ho regalato la mia saponetta, dicendogli di usarla tre volte al giorno. E anche la sua pelle ha fatto progressi. Ma la cosa che mi ha più commosso è stato ciò che è accaduto con Abdel Nur. Dopo un inizio non proprio promettente, mi ha chiesto di insegnargli il francese. Ogni pomeriggio, arrivava puntuale sulla mia stuoia con penna e quaderno. Per ringraziarmi mi ha regalato il suo zaino in modo che durante gli spostamenti potessi facilmente portarmi via le mie cose. Sono gesti che esprimono l’umanità che c’è nell’altro.

Hai scritto che «Dio non chiede miracoli, ma ci chiede di essere pienamente umani». Che cosa intendi?
Già durante la missione in Niger per me era chiaro che non siamo chiamati a fare grandi opere, ma a incontrare il bisogno degli uomini. A consegnare quei “cinque pani e due pesci” per condividere il desiderio di vita che c’è nella persona. Non penso che Dio abbia progetti specifici per ognuno di noi, è il nostro umano il suo progetto. Che solo nell’incontro con Cristo trova la sua piena realizzazione. Da ostaggio non ho voluto perdere questo sguardo, tutto in me era teso affinché la vita fiorisse. La mia, quella dei miei carcerieri. Perché come diceva il teologo François Varillon: «Ciò che l’uomo umanizza, Dio divinizza».

Negli ultimi mesi del sequestro ti hanno dato una radiolina…
È stato uno dei tanti modi in cui Dio si è fatto presente. Era Pentecoste, da 21 mesi non celebravo Messa. Sono riuscito a sintonizzarmi sulle frequenze di Radio Vaticana e di colpo mi sono “ritrovato” tra i canti liturgici della Messa in San Pietro. Ho appiccicato l’orecchio per non perdermi nulla del Vangelo e dell’omelia del Papa. Mi sono sentito rinascere, come un assetato quando trova finalmente l’acqua. Attraverso quella radio poi ho potuto riconnettermi con il mondo. Ho saputo così che c’era la pandemia. E di tanti altri sequestri in corso. La radio è stata un regalo di Abu Naser, uno dei capi dell’operazione.

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Come è stato il rapporto con lui?
Ci sono stati momenti di tensione. Come quando Luca ha tentato la fuga [Luca Tacchetto rapito alcuni mesi dopo padre Maccalli e tenuto sotto sequestro insieme a un altro italiano, Nicola Chiacchio, ndr]. Lì mi ha rimesso le catene e ha cominciato a guardarmi con sospetto perché mi credeva complice. Veniva ogni tanto a farmi visita e darmi notizie circa il negoziato in corso ed è lui che ci ha accompagnato in macchina l’8 ottobre 2020, il giorno della mia liberazione. Quella mattina era molto agitato e aveva buttato via, con stizza, la tazza di tè che avevo in mano. Ma una volta caricato sul pick-up, poco prima di consegnarmi ai militari, mi ha offerto dei datteri e dei biscotti. E mi ha chiesto scusa per il gesto della mattina. Ho accettato e ringraziato. Poi ho preso fiato e, cercando il suo sguardo, gli ho detto: «Abu Naser, c’è una cosa che voglio dirti: che Dio ci dia di comprendere un giorno che siamo tutti fratelli». Lui ha avuto un sussulto e ha alzato le mani dal volante e mi ha detto: «No, no! Fratello per me è solo chi è musulmano». Sono rimasto in silenzio, davanti a quell’ultimo muro.

Tu hai perdonato?
Prima di andarmene ho teso la mia mano verso Abu Naser e lui me l’ha stretta. Nel mio cuore ho perdonato tutti e sono in pace. È una cosa che ho avvertito di dover fare da subito, per non disumanizzarmi. Non ho voluto permettere che mi riducessero come loro. Non li ho mai trattati male. Non ho mai voluto reagire agli insulti. Li ho sempre chiamati per nome. Perché la vera battaglia è disarmare se stessi.