La colletta tutto l'anno
Un anno di stop, causa pandemia. Nella forma più classica, almeno. L’anno scorso non c’erano i volontari per la raccolta diretta nei supermercati, sostituiti dai buoni spesa acquistabili alle casse. Le charity card, vero, ci saranno anche quest’anno, per l’edizione numero 25 della Giornata Nazionale della Colletta targata Banco Alimentare, ma torneranno anche le squadre in pettorina a riempire scatoloni fuori da migliaia di esercizi commerciali italiani. Con tutte le prescrizioni antivirus del caso, chiaramente.
La prima fu nel 1997. «È nato il “fondo comune” degli italiani», disse don Giussani davanti alla mobilitazione di tante persone, a dieci anni dalla nascita del Banco Alimentare, partito con il sogno che da quella attività di recupero e ridistribuzione delle eccedenze di cibo potesse scaturire una dimensione educativa per tutto il popolo. Oggi la Colletta è solo la parte immediatamente visibile di ciò che fa il Banco. Basta pensare che le derrate raccolte – secondo tradizione, l’ultimo sabato di novembre – vengono redistribuite subito e si esauriscono in pochi giorni. Parliamo di meno del 10% di tutto il cibo che il Banco raccoglie annualmente da aziende e istituzioni e con cui serve oltre 7.500 associazioni, opere e realtà che si occupano di più di un milione e mezzo di poveri nel Paese. Un dato cresciuto ulteriormente durante il lockdown.
Ma con la povertà, in questi mesi, è aumentata anche la solidarietà. Anzi, in alcuni casi è stata travolgente. Siamo andati a Gualdo Tadino, in Umbria, dove quel sogno di don Giussani ha preso carne nella mossa di una città, diventando coinvolgente e permanente.
Per raccontarlo occorre partire dal Banco di Solidarietà (BdS) che da qualche anno opera in città e nei dintorni. È una di quelle opere tra le “migliaia di braccia” che in tutta Italia arrivano a portare nelle case di chi ha bisogno pasta, olio, latte, legumi e che il Banco Alimentare rifornisce. «Per noi la storia inizia nel 1997, con una serie di terremoti che colpì varie volte la regione», spiega Giuseppe “Peppe” Ascani, impiegato nel pubblico, che con un gruppetto di amici si occupa del BdS. A Gualdo, la scossa che fece più danni arrivò nell’aprile 1998. «Il Banco Alimentare intervenne subito, per sostenere migliaia di sfollati, e noi davamo una mano». Fuori dall’emergenza, l’aiuto a chi aveva più bisogno è proseguito prendendo la forma del BdS nel 2011.
Con Peppe, a gestire il piccolo magazzino e portare i pacchi ai poveri, ci sono Bruno, brigadiere, Mauro, imprenditore nella ceramica, un altro Mauro e Francesco, entrambi pensionati.
Dopo il terremoto, con la ricostruzione, l’economia era tornata a girare. Un po’ “drogata” da tanti fondi arrivati per l’emergenza, forse». Il grande comparto industriale – quasi 5.000 persone su 15mila abitanti impiegate nel settore della ceramica e nella grande fabbrica di elettrodomestici Merloni – nei primi anni Duemila inizia a entrare in crisi. Chiusure, casse integrazioni: «Le difficoltà erano tornate a farsi sentire. E si sentono ora», spiega Bruno: «Con l’aiuto del Banco Alimentare, abbiamo sempre sostenuto, nel nostro piccolo, una trentina di nuclei familiari. Poi è arrivata la pandemia… E ci siamo ritrovati davanti a qualcosa di straordinario. Tutta la città si è mossa per darci una mano a rispondere alle persone, sempre più numerose, che si trovavano in difficoltà. Siamo arrivati a seguire un’ottantina di famiglie». Istituzioni e associazioni che hanno elargito buoni spesa, persone comuni che chiamavano gli amici del BdS perché andassero a ritirare «qualche pacco di pasta e altro che ho comprato in più»… Bruno, con il lavoro che fa, girando durante il coprifuoco, incrocia tante situazioni difficili: «Tornando dal lavoro, non potendo rimanere indifferente, toglievo la divisa, mandavo un videomessaggio su Facebook: “C’è questa persona in difficoltà, c’è bisogno di questo e di quell’altro”». In alcuni supermercati è diventato una presenza fissa un carrello per la raccolta.
«Con la pandemia abbiamo visto tante persone impoverite faticare a fare la spesa», dice Maximiliano, titolare di un piccolo supermercato in centro, «eppure il carrello per il Banco era, ed è, sempre pieno». Una Colletta fissa, con due carichi a settimana nel periodo più difficile. E lui, in un negozio di quartiere, tra confidenze e qualche “pagherò” concesso a chi è in difficoltà, conosce bene le tasche dei clienti. Gessica, una delle dipendenti, ci tiene tantissimo a quel carrello all’ingresso, anche ora che l’emergenza è diminuita. Perché? «Perché qualche anno fa ero io in difficoltà. E in famiglia siamo stati aiutati. È un modo perché le persone possano continuare ad aiutare chi ha bisogno». Il fratello, in un altro supermercato vicino allo stadio, ha contribuito a far partire un recupero del fresco, vedendo le persone che frugavano nei cassonetti. Alla periferia della città, Elio è titolare di un grande esercizio in un centro commerciale. E anche qui, il carrello oltre le casse è un’istituzione. «So cos’è la fame. Fino a dodici anni era dentro casa mia. Nei primi anni Ottanta, mio padre ha messo in piedi un negozio. Frutta e verdura, pochi metri quadri. Mi ci sono buttato anch’io, ed è diventata la mia vita». Oggi se Bruno o Peppe chiamano per un bisogno particolare, «un modo di riempire quel carrello dedicato al Bds si trova sempre, anche se non manca chi continua a fare un po’ di spesa in più oltre alla sua», racconta Elio.
Il signor Luigi, per esempio, professore di Tecnologia in pensione, che ha appena finito le sue compere. Con la moglie aiutavano due anziane in condominio. «Cibo, vestiti… Poi sono morte. Chi avremmo aiutato?». Peppe è una vecchia conoscenza, genitore di un suo ex alunno. Riagganciarlo in città è semplice, ci si conosce tutti. «Il professore ora non manca mai di farci un po’ di spesa regolarmente», spiega Peppe salutandolo. Anche Daniela più volte ha chiamato Bruno per dirgli di passare da lei che aveva preso del cibo in più. Un figlio disabile e un marito agente di commercio, bloccato nel lavoro dalla pandemia: «Rientravamo nei parametri per ricevere i buoni spesa del Comune. Qualcosa abbiamo tenuto per noi, ma abbiamo comprato anche per chi aveva più bisogno». E poi ci sono le “mamme della scuola”, di cui racconta Barbara: «In pieno lockdown, con mio marito stavamo pranzando. A un certo punto, lo guardo e gli chiedo: “Ma secondo te, tutti mangiano?”. E lui ha chiamato Bruno, suo collega nell’Arma: “Certo che c’è bisogno!”. WhatsApp e i gruppi di amiche hanno fatto il resto. Con alcune, nel fare po’ di spesa in più e raccoglierla, è nata un’amicizia sorprendente». Un gruppo di appassionati di Fantacalcio ha devoluto la posta del campionato che aveva messo in piedi.
Il Lions Club locale ha messo a disposizione una grossa cifra in voucher: «Il rapporto con il Banco di Solidarietà non è una novità per noi, dura da anni», racconta Andrea Angeletti, presidente in carica del gruppo di una trentina di membri: «Il nostro motto è “Noi serviamo”. La cura del bene comune è nel dna della nostra associazione». E nel dna dei gualdesi in generale, a sentire il racconto di suor Maria Pamela, agostiniana di Gesù Bambino, che con una decina di sorelle manda avanti la casa che ospita una storica scuola dell’infanzia e una primaria: «Ci eravamo ammalate tutte di Covid. Io sono finita in ospedale. Ma la città si è preoccupata per noi e, anche attraverso gli amici del BdS, non ci ha lasciate sole». Rinchiuse nel loro istituto, «a nostra volta siamo state presenti, con candele accese alle finestre per non smettere di dare speranza a tutti». Ancora convalescente, due giorni dopo il ritorno a casa, suor Maria Pamela ha riaperto l’asilo e la scuola, tra supplenze e restrizioni: «E abbiamo ripreso ad assistere la dozzina di famiglie bisognose che conosciamo. L’aiuto della città ci ha aiutate e ci aiuta ad aiutare».
Aiutare ad aiutare, in fondo, è anche la scelta che ha fatto il Comune di Gualdo: «Perché funziona di più quando sostieni chi risponde meglio ai bisogni della popolazione», chiosa il sindaco Massimiliano Presciutti. Il Comune, nell’emergenza, ha stanziato buoni spesa per chi era in difficoltà. «Potevo fare un bando, creare una graduatoria tra gli aventi diritto… Mettere in piedi, insomma, l’ennesima macchina burocratica che sarebbe stata lenta e poco efficace», racconta: «Ma conoscevamo già le attività del Banco, conoscevamo le persone che lo facevano e come. Abbiamo affidato a loro il compito della gestione di questa cosa». Non alla cieca, insomma. E neppure senza controllo sulle autocertificazioni dei beneficiari. Ma di fatto una scelta politica in controtendenza rispetto al garantismo che va per la maggiore: «Dipende da cosa hai a cuore. E da chi hai davanti. È un rischio? Certo. Ma, oltre a conoscere le realtà a cui mi affido, se non rischiassi non sarei un buon amministratore». Magari in un contesto del genere è più semplice, aggiunge. Però non è scontato ascoltare il dialogo tra lui, Mauro e Peppe, pieno di nomi e cognomi, di situazioni particolari conosciute nel dettaglio senza nascondere la fatica di non riuscire sempre a risolvere tutto come si vorrebbe: «Anche la crisi del settore industriale, con poche possibilità per i giovani… Insomma, non è semplice».
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Lo sanno bene anche loro, un manipolo di ex operai della Merloni, impegnati con la Fiom. Luciano, 58 anni, faceva il magazziniere. Da tempo, come i suoi colleghi, è in cassa integrazione. «È frustrante. Ma durante la pandemia ci siamo sentiti di dover fare qualcosa. In fondo, anche quel poco, noi lo portavamo a casa». Non ci è voluto molto: una proposta, un passaparola. E in tanti hanno devoluto parte delle loro entrate al BdS: «Per dare un segno, che c’eravamo anche noi». E per una dignità che, nonostante non riescano a lavorare, è più forte. «Per cultura, per l’affetto alla nostra terra che impedisce di mollare». Il futuro non è roseo. E dal prossimo maggio finiranno anche le ultime “casse” all’ex Merloni. E voi? Scrolla la testa: «Non lo so, ma la vita è adesso».
Al magazzino del Banco, un locale concesso gratuitamente dal Comune, si prepara un pacco di alimenti. «È per Carlo», spiega Peppe. Ha sessantacinque anni e Mauro lo ricorda tra i capannoni della Merloni, uno dei primi a rimanere a piedi. «Un pezzo di grana… Metti la carne in scatola. La pasta? L’hai messa? Guarda che sono in due, c’è anche la moglie». Dagli scaffali si prende l’occorrente: «Prima era solo il Banco Alimentare a rifornirci. E, di fatto, l’unico coinvolgimento della gente avveniva alla Colletta annuale. Oggi il BdS riesce a provvedere ai poveri anche con gli aiuti della città». Il pacco è pronto. Carlo abita sulla collina di fronte a Gualdo. Non paga l’affitto da tempo, ma i proprietari, tolleranti, ora hanno deciso di vendere. «Non so dove andrò», dice. Ci accoglie in casa, con il nipote e la nuora, tra cani e gatti. Il pacco è sulla sedia. Importante, sì. Anzi, vitale. Ma lo è anche poter condividere i problemi con qualcuno. Le bollette, la graduatoria per la casa popolare, i centosettanta euro del reddito di cittadinanza che non arrivano più e che «non sai cosa vuol dire non poter comprare un dolcetto a mio nipote». Meno male che c’è Peppe, il Banco, commenta: «C’è solo questo. Il resto è nero». Tante volte si è trovato disperato. Tutto nero. «No, Carlo. Non è tutto nero, vedi quel pacco? Non è solo cibo... È l’abbraccio di una città». Di un popolo.