Per cosa vale la pena vivere

Su "Tracce" di ottobre un dialogo con don Emmanuele Silanos, tra i curatori della mostra al Meeting di Rimini su Franz Jägerstätter, messo a morte dai nazisti per aver rifiutato di arruolarsi. Ecco che cosa ci dice oggi la sua testimonianza
Paola Bergamini

«Crediamo come bambini e agiamo come uomini», scrive Franz Jägerstätter nel 1941. L’anno seguente questo contadino austriaco vissuto in un piccolo villaggio al confine con la Baviera, che la Chiesa ha dichiarato beato nel 2007, si rifiuta di combattere per la causa nazista ben sapendo che gli costerà la vita. È la sua fede semplice, da bambino, che lo porta a questa decisione. Una fede che è sbocciata e si è alimentata dal rapporto con la moglie Franziska che accetta la scelta del marito e lo accompagna nella sua Via Crucis. La loro testimonianza straordinaria e normale allo stesso tempo è stata illustrata nella mostra, tra le più visitate del Meeting di Rimini. Ne abbiamo parlato con uno dei curatori, don Emmanuele Silanos della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, che dopo sei anni di missione a Taiwan, dal 2013 è vicario generale dell’istituto.

Da cosa è nato il tuo interesse per Franz e Franziska?
Non conoscevo la vicenda fino a quando, durante il Covid, ho visto il film di Terrence Malick La vita nascosta che ne racconta in modo straordinario la storia. L’ho consigliato a tanti amici e tra questi alcune famiglie di Padova che, l’anno scorso, alla morte di papa Benedetto XVI, mi hanno proposto un pellegrinaggio nei paesi di nascita dei coniugi Jägerstätter e di Ratzinger, distanti pochi chilometri l’uno dall’altro. A St. Radegund abbiamo avuto il dono di incontrare e parlare con Maria, una delle quattro figlie di Franz. Sia la visita sia il dialogo con lei ci hanno così colpito da decidere di proporre una mostra per il Meeting. Un interesse che si è incrociato con quello di alcuni studiosi della rivista LineaTempo. Dalla collaborazione di questi due gruppi è nata la mostra.

Perché è stata così importante quella visita?
Innanzitutto per il dialogo con la figlia. Quando le abbiamo chiesto se lei e le sue sorelle avessero mai avuto dubbi sulla scelta del padre, la sua risposta è stata: «No, perché nostra madre ci diceva che aveva fatto bene. Aveva ragione: non sarebbe stato contento, se non avesse agito in quel modo». Lì ho capito che la storia da raccontare non era solo quella di Franz, ma di Franz e Franziska, del loro matrimonio. Qualcosa di simile mi era accaduto anche con altri santi: il contesto di semplicità in cui hanno vissuto conferma che la santità è strettamente legata alla quotidianità di una vita normale.

Possiamo dire che è il cuore della testimonianza.
Riprendo quello che ha detto Davide Prosperi all’Assemblea internazionale responsabili: «Chiamati, cioè mandati: l’inizio della missione», che è il tema della Giornata d’inizio anno di tutto il movimento. Dio imprime un cambiamento nella storia attraverso la persona, un io cambiato da una esperienza di comunione. Che per Franz è stato il suo rapporto con Franziska. Nei giorni del Meeting, tra le tante persone che sono uscite commosse dalla mostra, un caro amico, Adriano Dell’Asta, parlando con uno dei curatori ha colto il punto generativo della testimonianza di Franz: «Il cuore di questa storia è l’esperienza di misericordia da cui è stato investito». E questo è avvenuto attraverso un incontro: quello con Franziska. Fino a quel momento, aveva vissuto in modo disordinato, ma lei gli salva la vita. Possiamo dire che la misericordia aveva per lui il volto di sua moglie.

Per la tua vita quale significato ha l’incontro con Franz?
Mi ha colpito quello che ha detto Erna Putz, la biografa di Franz, nel video registrato appositamente per la mostra: «Leggendo le lettere dei due coniugi mi è venuta voglia di essere santa». Ecco, imbattermi nella loro storia ha riacceso in me il desiderio della santità, che è quello a cui sono chiamati tutti i battezzati. Anche a Franz era successo qualcosa di simile: il suo cammino nel tener fede alla scelta presa non è stato lineare. Anche lui aveva dubbi, anche per le pressioni esterne. Ma poche settimane prima dell’esecuzione, il cappellano del carcere gli confida che un sacerdote, padre Franz Reinisch, aveva subìto il suo stesso martirio. Questa notizia lo tranquillizza e gli fa dire: «Sono sulla strada giusta».
Quando trovi una persona che incarna quello che senti, che vive più profondamente di te quello che vivi, dici: allora è possibile anche per me. È lo stesso che succede a noi quando incontriamo Franz e Franziska. Sempre Erna Putz diceva: «La loro storia insegna che dare la vita per Cristo è la realizzazione della nostra vita e dà gioia». Dare la vita per testimoniare Cristo dà gioia: questo è anche il senso della missione. E per me che sono un missionario, è un richiamo fondamentale.



Come accennavi, i dubbi e i contrasti non sono mancati. Durante l’interrogatorio il funzionario austriaco gli dice che il suo gesto è inutile, che non cambierà le sorti della guerra. Dello stesso avviso sono i suoi concittadini, anche dopo la sua morte.
Il funzionario gli chiede il perché del suo gesto, visto che non cambierà le sorti della guerra: lo fa per affermare un principio? No. Franz dà la vita per una persona, Cristo, che si è fatto presente nell’incontro con Franziska. Offre la sua vita a Chi gliel’ha salvata.

Gli viene anche suggerito che la sua scelta di obiezione al regime nazista poteva rimanere chiusa nel suo cuore. Perché la sua coscienza cristiana lo spinge a rendere pubblica la decisione presa?
Nel film di Malick, il parroco che vuole dissuaderlo gli dice: «A Dio non importa cosa dici, ma cosa c’è nel tuo cuore». È una frase terribile, l’ultima tentazione che subisce in carcere. È terribile perché suggerisce un dualismo tra la fede e la vita. Gesù ha inviato i discepoli a testimoniare pubblicamente la propria fede, senza temere le ingiurie. Certo, ci possono essere determinate circostanze storiche che suggeriscono prudenza nell’esporsi pubblicamente, ma questa “prudenza” non può comportare la collaborazione con il male e il rifiuto esplicito della testimonianza, altrimenti sarebbe in contraddizione con quanto ci chiede Gesù, di non vergognarci di Lui e di non avere paura «perché lo Spirito Santo vi suggerirà cosa dire». In questo senso c’è un fattore importante che emerge bene dalla mostra.

Quale?
Franz non cerca il martirio, lui non vorrebbe abbandonare la famiglia, tant’è vero che chiede di prestare servizio militare nel reparto medico, ma gli viene negato. La testimonianza pubblica non è un’ostentazione, un esercizio muscolare, ma la risposta all’Amore che prende la vita. A ciascuno, dentro la propria vocazione, è chiesto di dare tutto in quello che quotidianamente facciamo. A me, ad esempio, in questo momento è chiesto di restare a Roma a servire la Fraternità di cui faccio parte: in questo consiste adesso la mia “missione”, anche se sembra una cosa diversa da quando ero a Taiwan.

Un punto nevralgico è il rapporto drammatico di Jägerstätter con la Chiesa. Il cappellano del carcere lo accompagna nella sua scelta, mentre parroco e vescovo cercano in tutti modi di dissuaderlo.
Alcuni dati per capire. Nel 1937, Pio XI nell’enciclica Mit brennender Sorge aveva chiarito che non era possibile essere allo stesso tempo cristiani e nazisti. L’anno seguente, il 99% degli austriaci nel referendum popolare vota l’annessione al regime nazista. Pochi giorni prima la Conferenza episcopale austriaca aveva emanato un documento in cui invitava a votare sì. Franz è da subito in disaccordo con questa presa di posizione. Da dove gli viene questa posizione coraggiosa che contraddice i suoi pastori? Innanzitutto, da una straordinaria capacità di discernimento, di andare al fondo del proprio cuore e alla propria coscienza. Ma questo gli è possibile perché è profondamente radicato nella fede della Chiesa, nell’obbedienza al Papa e al suo Magistero. Sarebbe sbagliato dire che Franz non ha obbedito alla Chiesa… in un certo senso, è uno dei pochi che ha obbedito veramente! Aggiungo una frase che si trova nei suoi scritti: «Se non fosse per la Grazia e la forza che mi ha dato Dio, probabilmente avrei fatto come tutti gli altri». Il martirio è una grazia: è una grazia che ti venga chiesto ed è una grazia anche rispondere di sì. Ho sentito tante persone, all’uscita della mostra, esclamare: «Io non sarei stato in grado, non ce l’avrei fatta». Ma la missione e la testimonianza in fondo sono solo questo: dire sì a ciò che Cristo ti chiede adesso. Come è stato per Franziska.



Il cardinale Zuppi nella prefazione del catalogo ha definito quello di Franziska «martirio bianco».
Quando le muore il marito ha solo trent’anni. Poi, per settant’anni, subisce le incomprensioni e le ingiurie dei suoi compaesani, non le viene nemmeno riconosciuta la pensione di vedova di guerra, ma soprattutto deve sopportare il silenzio che cade sulla storia di suo marito. Solo nel 1997, lo Stato austriaco riabilita la figura del marito e, nello stesso anno, inizia il processo di beatificazione. Nel 2007, nel giorno della beatificazione, Franziska bacia l’urna dove sono racchiuse le ceneri di Franz e la consegna al Vescovo di Linz. In quel gesto è come se riconsegnasse alla Chiesa austriaca quel figlio per anni dimenticato e di cui lei sola aveva custodito la memoria.

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In che modo?
Seguendo quanto le aveva scritto Franz nelle lettere dal carcere: non portando rancore a nessuno, perdonando tutti, anche chi le avrebbe fatto del male. Ha fatto la contadina per tutta la vita, educando le figlie e andando a Messa. Una vita semplice. Franziska ha vissuto custodendo la memoria del marito e imparando nel tempo le ragioni che lo avevano mosso. Anche per noi è così: si impara a dare tutto un passo alla volta, nei piccoli sì di tutti i giorni, verso la moglie, il marito, i figli...

Tante persone sono uscite dalla mostra con gli occhi lucidi. Quali incontri ti hanno maggiormente colpito?
Tantissimi. Ricordo un signore che ha detto: «Sono sempre stato preoccupato di garantire alla mia famiglia una vita perfetta, ora mi rendo conto che l’unica cosa che conta è mostrare loro per cosa vale la pena vivere». In questo senso, è sorprendente il commento di Paul Kahn, giurista ebreo americano, relatore di uno degli incontri al Meeting: «Il cuore di questa mostra non sono gli aspetti sociologici, ma la domanda: per cosa ha senso donare la propria vita?».