Madrid. Una partita sempre aperta
La carriera militare, la morte del fratello, il desiderio di dare la vita per un ideale. Pepe Rodelgo racconta la scoperta di quel “punto irriducibile” della sua persona. Che oggi lo fa vivere, anche nella malattia (da Tracce di novembre)Un incidente. Un tamponamento sul tragitto casa-lavoro. José Rodelgo-Bueno, detto Pepe, preside di una scuola di Miami, ha scoperto così, a 51 anni, di avere il cancro. Gli accertamenti, fatti al pronto soccorso per il classico colpo di frusta, hanno mostrato la presenza di una massa tumorale nel suo addome. «I medici mi hanno detto che sono stato fortunato. È una forma che non dà sintomi e che sarebbe degenerata in modo silente. Mi hanno proposto un piano di cura e ho avuto chiaro che, da lì in poi, iniziava qualcosa di diverso per me». È il 17 aprile 2019, una data che Pepe fissa accanto ad altri tre momenti fondamentali della sua strada, per il capovolgimento che provocano e che per lui coincidono sempre con una «una chiamata nella chiamata». Situazioni in cui la vita si è fatta fragile e lo ha esposto alla grande alternativa tra «il farsi schiacciare dai cataclismi o trovare il punto irriducibile che tiene in piedi la mia persona».
Quando accade per la prima volta, Pepe ha vent’anni. Sta frequentando l’Accademia aeronautica a Madrid, dove è nato e cresciuto. «Volevo servire il mio Paese. Era l’ideale più grande a cui pensavo di poter dare la vita». Ha davanti a sé una promettente carriera militare, ma qualcosa si inceppa quando Hector, uno dei suoi compagni, muore durante un’esercitazione in volo. «Mi chiamarono insieme a un altro allievo, l’allora principe Felipe, oggi Re di Spagna, a vegliare la salma. Per un’ora siamo stati sull’attenti, guardandoci negli occhi, come prevede il protocollo, davanti al corpo del nostro amico. E la mia testa si è affollata di domande: dov’era finito Hector che al mattino rideva e scherzava con noi? Cosa era il nostro vivere, se poi in un attimo poteva finire?». Sono domande che lo accompagnano e lo feriscono anche il giorno del diploma: «Finalmente ero tenente, ma ero triste. Avvertivo il disagio di voler dare la vita senza sapere più bene cosa fosse». Assegnato di stanza a Madrid, inizia a frequentare la facoltà di Economia, dove fa amicizia con un gruppo di ragazzi di Comunione e Liberazione: «Non ero religioso, ma mi ero innamorato di una ragazza e ho cominciato a frequentare i loro incontri». Non ci mette molto a capire che la fede che loro vivono lambisce tutte quelle sue domande e risveglia il desiderio di vivere per un ideale grande. «Mi sono buttato in questa nuova vita. Mi ero fidanzato e desideravo sposarmi. Tutti i giorni, dopo il lavoro alla base aerea, andavo in università e, a volte, in parrocchia, dove facevamo caritativa con gli studenti del liceo». A Pepe sembra che tutto sia finalmente in equilibrio. Ma c’è un pungolo che gli suggerisce che la partita è ancora aperta. «Sentivo crescere una passione per l’insegnamento, provavo una soddisfazione che non mi lasciava tranquillo rispetto alla mia carriera».
Arriva così la seconda chiamata, quella della vocazione. «La mia vita era ricca di rapporti e di incontri. Guardavo le persone sempre assetato. La mia domanda su come poter dare la vita, invece che acquietarsi, si gonfiava sempre di più». Un giorno dell’agosto 1993 conosce Enrique, dei Memores Domini: lo ascolta durante una testimonianza. Ma soprattutto lo guarda. «Ho visto un uomo che viveva appoggiato non sulle sue forze, ma “preso”, calamitato da un’attrattiva che rendeva possibile quella vita particolare. Ho iniziato a verificare se era la strada anche per me».
Ma l’orizzonte è ancora più ampio di quanto lui immagini. Suo fratello Ricardo si ammala e questo scombina ancora una volta i suoi progetti. «Era mio fratello maggiore, era brillante, vivace. Per lui la vita doveva essere un’avventura estrema. Ci facevamo lunghi viaggi in moto. Quando gli avevo confidato della vocazione non l’aveva presa bene. Mi diceva: “Quelli ti hanno fatto il lavaggio del cervello”». Ma verso la fine della malattia succede qualcosa a Ricardo che smuove Pepe nel profondo. «Nel tempo, le cure di mia madre e la presenza dei miei amici in casa l’avevano ammorbidito. Un giorno mi ha chiesto di chiamargli uno dei “miei amici preti”. Non so cosa si siano detti, ma dal momento in cui si è confessato, mio fratello non ha più smesso di sorridere. Era un altro. È morto quattro giorni dopo tra le mie braccia, affidandosi a Gesù». L’idea della missione entra nella vita di Pepe in quell’istante: «Desideravo dire a tutti ciò che avevo visto accadere a mio fratello».
Nel 2002 Pepe, che aveva iniziato il cammino dei Memores Domini, lascia l’Aeronautica militare per l’insegnamento. Accetta un incarico a Porto Rico, perché la Diocesi aveva fatto richiesta di persone del movimento e, quattro anni dopo, si sposta a Miami dove, nel 2012, diventa preside del Liceo St. Brendan. «In questi quasi vent’anni di missione ho sempre tenuto nel cuore ciò che mi disse don Giussani dopo la Professione nei Memores, nel 2004: “Gesù è arrivato fino a te. Sei come l’anello di una catena lunghissima. Forza, vai!”. Ho cominciato a capire che potevo vivere la missione per l’appartenenza a questa storia che, attraverso degli uomini, mi legava a Gesù».
Quando è arrivato il cancro, la forza di quelle parole è diventata ancora più radicale: «Per due anni, ho cercato di tenere duro: facevo il preside a tempo pieno e incastravo la chemio, le risonanze e gli esami del sangue. Ho cercato di tenere la notizia confidenziale perché non volevo che mia mamma in Spagna lo venisse a sapere. Ma in realtà ero io che non volevo mollare». Fino a quando la gestione diventa insostenibile. «Ho dovuto arrendermi all’aspetto più misterioso della malattia: è una circostanza a cui non puoi dire di no. Lei c’è e tu non puoi scappare. Ero di nuovo chiamato a vivere una vocazione nella vocazione». Il primo passo è stato lasciare Miami e tornare a Madrid, dove avrebbe trovato una condizione migliore per affrontare l’avanzare della malattia. «È stato duro salire su quell’aereo. Dovevo lasciar morire l’idea che sarei rimasto in missione fino alla fine, lì seduto alla mia scrivania di preside. Ma ho capito che se non accettavo di vivere la malattia, avrei potuto continuare a fare tutto in nome della fede, con il rischio di perderla. Ora la missione non è più l’America, ma sono io».
La vita di Pepe a Madrid cambia andatura: dai 200 chilometri all’ora di Miami arriva a velocità zero. I dolori spesso lo costringono a stare su una poltrona tutto il giorno. A casa, gli altri sette uomini dei Memores con cui vive, a turno, lo seguono nelle sue necessità. La mattina c’è la Messa, poi la colazione insieme, se sta bene lo accompagnano in piscina. Alcuni amici lo vengono a trovare nel pomeriggio. Poi, la sera si ritrovano per i Vespri. «A volte non mi accorgo neanche del dolore, non perché non ci sia, ma perché c’è qualcosa di più grande, perché sono dentro una vita che mi fa vedere altro».
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Come quando, a un mese dal suo rientro in Spagna, ha ricevuto la scatola, che era stata collocata a scuola dopo la sua partenza, con oltre cinquecento lettere dei suoi studenti e dei suoi colleghi. Ci ha messo un mese a leggerle tutte. Giusto in tempo perché un corriere gliene recapitasse altre due. «Mi raccontano la loro vita. Mi mettono tra le mani le cose più preziose che hanno. Come se la mia malattia li avesse posti in qualche modo di fronte a Dio. Non sempre si può battere il cancro. Ma questa è la mia vittoria: accorgermi di questi frutti che maturano più che se fossi rimasto lì, a qualche metro da loro». Sono un altro anello di quella catena lunghissima.