Un bambino di 84 anni

La testimonianza di un amico di Jesús Carrascosa, morto lo scorso 9 gennaio, all’ultima Assemblea dei Responsabili dell’America Latina (da "Huellas" di maggio)
Ettore Pezzuto

«La vita ci è stata data per conoscere Colui che è il suo significato: Cristo. E il nostro compito è farlo conoscere a tutto il mondo. I nostri più grandi peccati non sono le nostre miserie, ma la dimenticanza e la distrazione dalla Sua Presenza: senza memoria di Cristo ci perdiamo l’alba nuova». Queste parole di Carras descrivono bene fino a che punto la sua vita fosse diventata un’avventura appassionante da quando aveva conosciuto il movimento di Comunione e Liberazione.

Fino a quel momento era molto coinvolto nei movimenti anarchici, aveva dato la vita per essi, ma l’impatto con il carisma di Luigi Giussani lo ha cambiato così profondamente che lo chiamava sempre «l’alba nuova», che non era altro che il centuplo. Quante volte l’abbiamo sentito dire che il centuplo l’aveva mangiato e bevuto! Perché se c’era qualcosa che Carras testimoniava al mondo intero, era quella gioia di ricevere costantemente il centuplo. Persino un cameriere ci chiedeva di lui in questi giorni in Brasile: «Non è venuto quel tipo che portava sempre i liquori e sorrideva sempre?». L’immagine di un uomo che si gode la vita, con i suoi liquori e il suo sorriso.

Arrivai a Madrid nel 1989 e lo conobbi subito perché me lo presentò Enrique Arroyo. La prima cosa che vidi fu la sua umiltà. Per lui la persona che aveva davanti era la più importante al mondo. Quando siamo andati a Roma per il centenario di don Giussani, un paio di anni fa, abbiamo camminato un’ora per percorrere 300 metri dalla piazza San Pietro al luogo dove andavamo a mangiare, perché gente da tutto il mondo si fermava e lui li abbracciava uno a uno, come aveva fatto per tutta la sua vita. Chiedeva a tutti come stavano e aveva una parola per ognuno.

La sua priorità è stata sempre la sequela. Per lui il carisma era il dono di Dio alla sua vita e ha sempre, sempre, vissuto l’appartenenza al movimento come una sequela semplice e fedele, dentro un’obbedienza cordiale a chi lo guidava, non solo con don Giussani ma anche con Julián Carrón e Davide Prosperi. Carras aveva fatto conoscere il movimento agli amici di Nueva Tierra, ma quando si trattò di seguire Julián lo fece senza problemi e con tutto il cuore. E lo stesso è accaduto quando Prosperi è stato nominato presidente della Fraternità; non si è fermato un minuto a rimpiangere il passato, ma si è messo come un bambino a seguire Davide, che era molto più giovane di lui.

Curava particolarmente ciò che chiamava l’educazione ricevuta nel movimento, cioè che per seguire bisogna aver cura del proprio io. Lo aveva imparato da Giussani, e parlava sempre della cura del proprio io, non per amor proprio, ma per una attenzione al proprio destino. La cura del proprio io consisteva per lui nel vivere la memoria. L’estate scorsa siamo stati dieci giorni al mare e passava le mattine intere a leggere gli Esercizi della Fraternità. E poi ci leggeva dei lunghi passi, commosso da ciò che stava scoprendo, a ottantaquattro anni, come un bambino!

Era uno che ti abbracciava sempre. Il suo motto era «vince sempre – non una volta ma sempre – chi abbraccia più forte». E lo ha messo in pratica in tutta la sua vita. Quanti di noi sono stati vinti dal suo abbraccio! E non lo diceva per un entusiasmo ingenuo. Ho conosciuto poche persone con un realismo come il suo. Era un abbraccio che nasceva dalla consapevolezza che Cristo è all’origine dei nostri rapporti, e per questo la vera comunione può nascere solo dalla memoria di Cristo presente. Ha sempre amato le persone che incontrava soprattutto perché erano un dono del Signore alla sua vita. E questo si percepiva subito nel suo sguardo e nel suo abbraccio.

Ricordo cosa mi disse quando dovevo intraprendere il mio nuovo incarico come responsabile internazionale: «Non ti esaltare per la funzione che hai o per i successi che otterrai, pensa sempre che sei un umile servo nella vigna del Signore e che il nostro compito è costruire il movimento come collaborazione all’opera di Dio». Per Carras la missione era la costruzione dell’opera di Cristo nel mondo «per la Sua gloria, non per la nostra vana gloria». E questo è ciò che chiedo sempre ogni volta che devo parlare in pubblico o in privato.

I suoi ultimi anni come responsabile del movimento in Spagna sono stati preziosi per come ci ha restituito il valore della Scuola di comunità, che per lui era sacra. Diceva sempre che andare alla Scuola di comunità era come andare al “quinto albero di fico”. Era l’immagine che si era fatto pensando a Giovanni e Andrea che tornavano a casa dopo aver conosciuto Gesù. Nel salutarsi, sicuramente si sarebbero dati la buona notte e Andrea avrebbe detto a Giovanni: «Domani vado a vedere Gesù». «Ah, anch’io ho un appuntamento con lui». «E dove ti ha detto di andare?». «Sulla riva destra del fiume, sotto il quinto fico». «Anche a me!». «Allora andiamoci insieme». Per lui andare alla Scuola di comunità era come andare insieme al quinto albero di fico, dove Cristo ti sta aspettando.

Fino ai suoi ultimi giorni non ha mai smesso di ripetere a tutti coloro che andavano a trovarlo: «Custodite l’unità del movimento perché questa è la missione che ci è stata data».

Concludo dicendo qualcosa sulla sua morte. È stata molto veloce. Dopo gli esami e la diagnosi terminale, quando gliel’hanno comunicata, si è fermato un istante con il suo solito sorriso e ha detto: «Sono pronto per il decollo!». Non si è preoccupato nemmeno per un minuto del dolore che avrebbe potuto provare. Carras ci ha insegnato come vivere e ci ha insegnato anche come morire.