Tracce N.4, Aprile 2017

Chi conduce la storia
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C’è un modo molto semplice per rendersi conto di ciò che la Chiesa porta nel mondo: guardare cosa è successo quando papa Francesco è arrivato a Milano. Gente ovunque, per tutta la giornata. Un milione di persone, hanno contato. Ed era un popolo gioioso, contento, sorridente nonostante le sue fatiche. Non quelle del viaggio o delle ore di attesa sotto il sole nel Parco di Monza, ma le fatiche della vita, il travaglio di pesi e preoccupazioni in cui normalmente si dipana l’esistenza quotidiana. «E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti», diceva l’Innominato manzoniano guardando la folla che correva dal cardinal Borromeo. Bene: era così anche in quel sabato di fine marzo, identico. Ma allora cosa attendeva la gente dal Papa? La soluzione dei suoi problemi? Lo scioglimento di ogni nodo, di ogni singolo travaglio?
Evidentemente, no. E a guardare bene, è impressionante. Su quel punto in fondo effimero, come ogni uomo, ma decisivo proprio perché incarna la Chiesa, si è riversata un’attesa molto più grande. Magari inconsapevole, ma più grande. Perché era un’attesa che comprendeva tutte le altre.

E il Papa ha risposto. Ha abbracciato ogni ansia, ogni problema, uno ad uno, facendo quello che la Chiesa fa da sempre: spalancare la prospettiva. Rimandare al rapporto con Dio, alla dipendenza da Lui e dalla Sua misericordia. Lo ha fatto di continuo, davanti ad ogni questione che gli veniva posta. Le periferie? Sono anzitutto il posto dove «potete incontrarvi col Signore, rinnovare la missione delle origini, tornare alla Galilea del primo incontro». L’evangelizzazione? È una gioia, ma è Dio che la fa, che «prende i pesci», perché «è Lui che conduce la storia». L’educazione dei figli? Si affronta guardando alla «gratuità di Dio». E così via. Fino a quell’espressione che, in un certo senso, le sintetizza tutte, per come allarga lo sguardo ribaltandolo: «Non dobbiamo temere le sfide, questo sia chiaro. Quante volte si sentono delle lamentele: “Ah, quest’epoca, ci sono tante sfide, e siamo tristi...”. No. Non avere timore. Le sfide si devono prendere come il bue, per le corna. Ed è bene che ci siano. È bene, perché ci fanno crescere. Sono segno di una fede viva, di una comunità viva che cerca il suo Signore e tiene gli occhi e il cuore aperti».

Ecco, è questo che porta la Chiesa. Non la soluzione dei problemi, ma «occhi e cuore aperti». Ovvero, quell’«atteggiamento vero» che rende possibile affrontarli, come diceva don Giussani. È la religiosità, la coscienza che dipendiamo da Dio. «È Lui che conduce la storia». E questo apre una prospettiva che non allontana dalla realtà, non fa ritirare dalle cose. Al contrario: sollecita ancora di più, perché allarga il respiro, dà energia, fa cogliere uno spessore - una profondità - nelle vicende quotidiane che non ci immaginavamo prima.

Per questo la parola che si è sentita di più, tra i milanesi, è stata «speranza». Prima e dopo l’arrivo di Francesco (colpisce leggere le parole degli inquilini delle Case bianche, o dei detenuti di San Vittore). I problemi restano, per ognuno di noi. Ma la Chiesa c’è, le «parole eterne» di Gesù sono ancora «vive nel tempo», come diceva Charles Péguy nel testo del Volantone di Pasqua proposto da CL. I problemi restano. Ma possiamo scoprire il gusto di affrontarli.