Tracce N.8, Settembre 2015

Come all’inizio
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C'è una foto che ha fatto il giro del mondo, nei giorni scorsi. Era Aylan, il bimbo siriano di tre anni, annegato nel viaggio verso Occidente e raccolto da un poliziotto turco sulla spiaggia di Bodrum. Impossibile guardarla senza sentire una fitta dentro. Senza che salisse un urlo, dalle viscere: perché? L’abbiamo vista e rivista, mentre si raccontava la tragedia della sua famiglia. Se n’è discusso molto, sulla stampa: se pubblicarla o no, se fosse giusto trasformare un dramma in un’icona, come altre immagini che hanno segnato i cuori e quindi la storia. Se sia stata in qualche modo all’origine del sussulto di umanità e accoglienza che stiamo vedendo in Europa. E tante volte in queste discussioni è affiorata la domanda: se non ci scuote questo, se un fatto del genere non ci fa prendere coscienza di noi e del mondo che brucia intorno, che cosa può farlo?
Poi, un po’ alla volta, anche quell’urlo si fa flebile. Inesorabilmente, si passa ad altro. Altre storie, altri drammi. Altre vicende da leggere alla voce “emergenza”, parola così infiacchita che ormai nei giornali è uscita dai titoli per diventare un occhiello, una di quelle scritte in alto che ti dicono di che argomento stiamo parlando. Una “categoria”. Mentre quella domanda resta, intatta. Ed è la stessa questione che poneva qualche giorno fa Julián Carrón a un gruppo di responsabili di CL: «Non è che manca la realtà. La realtà ci provoca di continuo. Se restiamo nel nostro torpore è perché manca l’io. Allora, che cosa lo ridesta?».

Al Meeting di Rimini si è parlato di tante di queste emergenze. La Siria e il Medioriente, l’islam e il dialogo tra le religioni, l’Europa, la crisi, l’educazione... Non è mancata la realtà, appunto. Ma si è affrontato anche questo interrogativo radicale. Il Papa, nel suo messaggio, l’ha posto così: «Di fronte al torpore della vita, come risvegliare la coscienza?». Come coltivare quella «sana inquietudine» che sentiamo dentro, quelle domande che ogni uomo ha in cuore, quella mancanza che ci avverte «come un campanello» che siamo fatti per cose grandi? Che abbiamo «sete di Dio»?

Non c’è una risposta preconfezionata. Non ci sono formule e forme consolidate da riproporre, con la garanzia che funzionino da sole. Lo ricorda lo stesso Francesco, quando dice che «per la Chiesa si apre una strada affascinante, come fu all’inizio del cristianesimo». È un’avventura. Una strada da scoprire, mentre intorno sembra cadere tutto.
Però a Rimini si è visto succedere qualcosa. Negli incontri, sul palco e fuori. In tanti faccia a faccia che hanno acceso cortocircuiti imprevisti (russi e ucraini che lavorano assieme a una mostra, imam e rabbini a dialogare con un cardinale...). In alcuni volti che ci hanno segnato per la loro letizia impensabile (uno per tutti: padre Ibrahim Alsabagh, di Aleppo). In una miriade di fatti impossibili da costruire a tavolino, come quelli che troverete raccontati in queste pagine. Ma accaduti. E proprio perché impensabili, ma accaduti, da guardare fino in fondo. Da capire in tutta la loro portata di conoscenza, perché diventino passi di quella strada avventurosa e non aneddoti bellissimi, ma fini a se stessi.

Uno dei protagonisti del Meeting è stato Abramo. L’inizio del metodo di Dio, si è detto. Il momento storico in cui il Mistero chiama l’uomo a dirgli “Tu” e, facendosi incontrare, lo ridesta, ne fa emergere tutta la statura, le domande, la sete; perché «senza Mistero non c’è l’io», come diceva Carrón in quell’incontro. Così, attraverso uno, Dio cambia la storia. Ecco, a Rimini in qualche modo lo abbiamo visto riaccadere; sul grande schermo e dietro le quinte. Abbiamo visto momenti di quell’avventura, tracce di quella «strada affascinante». E vogliamo seguirla.