Brasile. «L'abbraccio che arriva fino al midollo»

Un viaggio a Salvador de Bahia, dopo aver ascoltato la testimonianza di Paola Cigarini che da anni lavora tra i favelados. «Per capire da dove nasce lo sguardo che ho visto in lei»

Ho fatto un viaggio in Brasile per visitare il Centro Educativo João Paulo II di Salvador de Bahia, che opera nella favela degli Alagados. Il centro nasce nel 1999 dall’iniziativa dei coniugi Angelo e Fernanda Abbondio, toccati dall’incontro e dall’amicizia con don Luigi Giussani. Attraverso la Fondazione Umano Progresso, hanno dato vita al Centro per offrire un luogo sicuro e bello ai ragazzi, così da non lasciarli per strada dopo la scuola.

Io sono partita per il Brasile non con l’idea di fare volontariato, ma perché volevo capire quale fosse l’origine dello sguardo che ho visto in Paola Cigarini, la direttrice del Centro. Non la conoscevo, ma ho ascoltato la sua testimonianza a un incontro per il centenario di don Giussani. Più che le parole in sé, mi avevano colpito la sua letizia nel vivere e il suo sguardo, così le ho scritto. E il 2 marzo scorso sono arrivata in Brasile. Sono partita per questo viaggio con tante domande, che non hanno trovato risposta, ma sono state accolte e abbracciate da una corrispondenza e familiarità che non potevo aspettarmi. Mi sentivo divisa e insoddisfatta, sempre sopraffatta dal lavoro, con la famiglia lontana, amici sparsi per l’Italia, un senso di solitudine benché circondata da persone. Davanti a Paola mi è sorta la domanda: come fa a vivere così?

Sono arrivata lì da persone che non conoscevo, senza portare loro nulla di concreto, ma sono stata subito accolta. Avevo paura per l’ostacolo della lingua, perché non parlo portoghese, ma non c’è stato il tempo di lasciare spazio ai pensieri che hanno vinto la curiosità e lo sguardo vivo dei ragazzi del Centro: i più piccoli mi hanno accolta abbracciandomi, i più grandi riempiendomi di domande. I professori mi facevano stare in aula con loro. Dopo una sola giornata ero sorpresa: «Quanto ho ricevuto, io che sono così inadeguata!».

Ho avuto la possibilità di conoscere la storia del Centro e mi sono resa conto di quanto sia essenziale avere un luogo in cui la propria persona possa sentirsi a casa. I ragazzi sono guardati, chiamati per nome, valorizzati come futuri uomini e donne. È un posto che li salva, in un’età in cui l’alternativa sarebbe la strada e in cui il servizio pubblico li tratta come se non ci fosse alcuna speranza per chi nasce qui come loro. Ciò che più mi ha colpito è il metodo educativo, che non può nascere dall’iniziativa o dal genio di una persona, ma è uno sguardo differente che già esiste, che è presente. Gli educatori non danno ordini, ma accompagnano nella fatica e danno le ragioni di tutto. Ho visto altre opere a Belo Horizonte, in cui c’è lo stesso sguardo, un’attenzione all’uomo, un bene evidente per l’altro, che nasce dall’esperienza vissuta su di sé, una sovrabbondanza, una pienezza per sé che rende possibile darsi per l’altro.

Passavo la maggior parte delle ore con Julivan, professore di Robotica. Laureato in Fisica, che per fare questo corso si è dovuto reinventare. Trasmette tutti i concetti teorici a partire da quello che i ragazzi possono capire: la realtà. Fa sempre esempi concreti e questo mi ha commosso, perché prima di guardare al suo background lui guarda ai ragazzi: di cosa hanno bisogno?

Sono ragazzi pieni di talento, ma non è scontato che abbiano un futuro. Tutti li guardano senza speranza e per fare l’università o corsi di formazione avanzati devono avere una certa situazione economica. Se qualcuno non ha a cuore il loro bene, sono segnati per sempre. Se io fossi nata qui, avrei mai fatto l’università? In che condizioni avrei vissuto? Ho dato tanto per scontato. È tutta una questione di sguardo: che valore diamo a quello che viviamo e incontriamo. Il lavoro della Scuola di comunità ha assunto concretezza al Centro, tra quei ragazzi: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore, molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Bisogna attaccarsi alla realtà, guardare quello che c’è, ora. In un dialogo con Paola ho conosciuto di più la storia sua e del Centro. Mi ha colpito la sua posizione: lei ha aderito alla proposta di dirigere il Centro, dall’altra parte del mondo, per una sovrabbondanza sperimentata su di sé e questo ha generato inventiva, immaginazione, crescita. L’origine è chiara: partendo dall’esperienza, piano piano si è affinato anche il metodo educativo... Perché la realtà risponde. Si tratta di scommettere sul reale, perché ha dentro tutto: domande e risposte, per questo detta un metodo.

Penso a una ragazza del Centro, Mirelle, 12 anni. Ogni giorno mi dava un motivo per riconoscermi amata. Veniva da me, che nella sua lingua so dire tre parole in croce, per chiedermi come stessi e raccontarmi di sé. Mi ha detto che per lei il Centro è la sua seconda famiglia, a volte anche la prima. È stata abbandonata dal padre e si curano di lei la madre e lo zio, che hanno a cuore la sua formazione. È sveglia, volenterosa, attenta. L’ultimo giorno ho desiderato ringraziarla per il bene che mi ha trasmesso come un abbraccio ogni giorno. Lei mi ha risposto che la maggior parte di loro in casa non riceve amore, ma al Centro sono educati a darlo e a riceverlo.

C’è un’umanità viva che trova espressione, e l’ho visto anche nei dipendenti. Mentre ero lì, una di loro ha perso il figlio, è stato ucciso per un litigio a 25 anni. Lei è rimasta attaccata al Centro, con tutto il suo dolore, per lo sguardo differente che c’è. La giustizia in posti così è difficile da ottenere, se non impossibile, ma ciò che più urge al cuore è la salvezza. Lei veniva al Centro in quei giorni perché lì il suo cuore è preso sul serio, il suo dolore si fa domanda e non viene celato, ma abbracciato.

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Ora che sono tornata a casa non c’è momento in cui non pensi ai volti incontrati. Sono partita con le mie domande, la fatica di non sentirmi unita e salda e ho ricevuto molto più di quanto potessi aspettarmi: un luogo familiare in cui posso essere semplicemente come sono. L’ultimo giorno del viaggio, sono andata a messa e c’era il vangelo della vedova di Naim. Mi è venuto in mente un pezzo di Giussani:

«Donna, non piangere!»: questo è il cuore con cui noi siamo messi davanti allo sguardo e davanti alla tristezza, davanti al dolore di tutta la gente con cui entriamo in rapporto, per la strada o nel viaggio, nei nostri viaggi. «Donna, non piangere!». Che cosa inimmaginabile è che Dio - “Dio”, Colui che fa tutto il mondo in questo momento -, vedendo e ascoltando l’uomo, possa dire: «Uomo, non piangere!», «Tu, non piangere!», «Non piangere, perché non è per la morte, ma per la vita che ti ho fatto! Io ti ho messo al mondo e ti ho messo in una compagnia grande di gente!». Uomo, donna, ragazzo, ragazza, tu, voi, non piangete! Non piangete! C’è uno sguardo e un cuore che vi penetra fino nel midollo delle ossa e vi ama fin nel vostro destino, uno sguardo e un cuore che nessuno può fuorviare, nessuno può rendere incapace di dire quel che pensa e quel che sente, nessuno può rendere impotente!
Cinzia