Marcello Veneziani. «Quando il desiderio non guarda all'infinito»

Il male, la paura, la solitudine. Ma anche la libertà, l'amore, la speranza. E una parola chiave: educazione. Il giornalista e scrittore si confronta con il volantino di CL dedicato ai fatti di Paderno Dugnano
Davide Perillo

«Condivido. Il tema di fondo, alla fine, è quello: quando i diritti coincidono con i desideri e la libertà sconfina nel suo contrario è quasi inevitabile che si arrivi a certi fatti, almeno nei casi più estremi». Estremi come il pluriomicidio di Paderno Dugnano, dove un ragazzo di 17 anni ha confessato di avere ucciso padre, madre e fratello mettendoci una volta di più di fronte a «un mistero insondabile e disumano», come è scritto ne Il male e l’amore che salva, il volantino di CL. Marcello Veneziani, 69 anni, giornalista, scrittore e autore di diversi saggi sulla società di oggi (l’ultimo è L’amore necessario, Marsilio), quel testo lo ha letto. E dice, appunto, di trovarci consonanze.

Tu parli spesso di “narcisismo” come di uno dei mali più corrosivi di oggi: mi pare che c’entri molto…
Sì. Io credo che parte dei nostri problemi – non solo delle dissonanze con gli altri, ma anche di certe forme di egoismo – derivi dal fatto che viviamo in un'epoca patologicamente narcisista. L'importante è rispecchiare sé stessi nella realtà, ritrovandoci dentro il nostro riflesso. Vale anche nei rapporti: frequentiamo le persone che possono avere un “effetto di rimbalzo”, che possono restituirci la nostra immagine potenziata. E il narcisismo, a mio parere, è anche il motivo per cui, come scrivo nel mio ultimo libro, viviamo «nell'epoca del disamore»: amiamo troppo noi stessi per pensare agli altri.

Il volantino parte da Paderno Dugnano, ma prima e dopo c’è stata una catena di fatti tragici: la ragazza che partorisce e poi seppellisce i suoi neonati, il ragazzo che colpisce il vicino con la mazza da baseball, quell'altro che dice di avere ammazzato una donna a mani nude «per vedere che effetto fa»... Senza addentrarsi in giudizi su situazioni che non conosciamo, ma qualcuno di questi eventi ti ha colpito particolarmente?
Mi colpiscono allo stesso modo, anche perché certi meccanismi di fondo sono simili. Anzitutto, l'io che prevale su qualsiasi cosa e si separa dagli altri, in un egoismo patologico: quello che importa è “star bene con sé stessi”, come si dice oggi. Poi, il presente che si separa da ogni continuità: in quel momento non hai idea di ciò che è stato il passato – di cosa hanno rappresentato quelle persone contro cui infierisci, di chi sono, che storia hanno – né di quel che sarà l'avvenire, e quindi degli effetti del tuo atto. Ti isoli nel presente: ciò che compi segue solo la pulsione del momento. Se metti insieme egocentrismo e isolamento nel presente, hai quei risultati.

C'è un'altra parola che hai usato spesso negli ultimi tempi, e a cui hai dedicato un libro, ed è “scontentezza”: è il riverbero nel rapporto con gli altri del disagio che sentiamo in noi. Per cui i rapporti si fanno conflittuali, polarizzati…
Quella che io chiamo “scontentezza” è una sorta di desiderio portato all’infinito nel senso peggiore del termine. È la convinzione che tutto ciò che siamo e che abbiamo non basti: dobbiamo essere e avere altro. Dobbiamo cambiare il nostro corpo, il sesso, l’età, la famiglia… E nello spazio di frustrazione tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere nasce, appunto, la voragine della scontentezza. È un desiderio che non guarda all'infinito – nel senso di una misura più grande di noi –, ma a un potenziamento delle nostre possibilità di vita all'infinito. In fondo, è la follia del nostro tempo: siamo convinti che la nostra libertà non sia assolutamente limitabile. Ma è una libertà che alla fine diventa pretesa, e fa coincidere diritti e desideri.

Quindi è un desiderio di infinito che si riversa su qualcosa che non può rispondervi….
È come versare l'oceano in una tazza di tè: non cogliere la distanza e la tensione ideale che ci deve essere tra il finito e l'infinito può essere devastante.

Il volantino accenna anche al problema del male, che tendiamo a censurare.
Vogliamo rimuovere il male come rimuoviamo l'idea della morte e, in fondo, di tutto ciò che è negativo. E la rimozione avviene attraverso due atti, convergenti. Da una parte la negazione del male, perché l'uomo è “buono in natura”: siamo portati al bene. Dall'altra, il confinare il male ad alcune figure che demonizziamo e indichiamo come la causa di ogni problema.

Il famoso capro espiatorio…
Appunto. Ma è un altro modo per scaricare il male da noi. Se, invece, avessimo l'umiltà di capire che è dentro di noi e noi dobbiamo combatterlo ogni giorno, sarebbe un passo importante.

C’è un altro punto fondamentale nel testo: l’educazione. «Ascoltare i giovani e prendere sul serio le loro domande è decisivo». Ma non è che a volte abbiamo paura anche di questo? Facciamo fatica a prendere sul serio le domande perché non sappiamo noi che cosa proporre...
Non c'è soltanto la paura: c’è anche la tensione, un po’ più sbrigativa, a vivere la nostra vita individuale senza assumerci la responsabilità di indicare modelli, di dare esempi, di ragionare su come modificare la realtà. E a supporto di questa vocazione egoistica è arrivata un’ideologia per cui educare una persona vuol dire, in qualche modo, costringerla, coartarla: bisogna accettare l'autodeterminazione sin dall'infanzia, perché i ragazzi sanno quello che vogliono e quindi non dobbiamo essere noi a indirizzarli. Il risultato è una società ineducata, che poi arriva ai livelli con cui stiamo facendo i conti.

Forse alla fine c'è una parola che lega tutte queste cose: è “solitudine”.
Sì, la solitudine è il frutto e al tempo stesso la causa dell'individualismo nel quale viviamo. In questo concordo con Hannah Arendt, che distingueva tra solitudine e isolamento. La solitudine per certi versi può anche essere una ricchezza: un momento in cui ti apparti, contempli il mondo e, paradossalmente, sei più vicino agli altri nella distanza. Noi, però, viviamo soprattutto un'epoca di isolamento: è la perdita del mondo, dei rapporti con gli altri. Non è una scelta, ma piuttosto un nostro deficit. Quando non hai un rapporto reale con le cose, l’io cresce a dismisura e perde il senso della realtà. E la vita degli altri diventa soltanto un ostacolo alla tua.

Nel testo si parla di educare «non tanto a una modalità di vita, ma a chiedersi perché e per cosa vivere», ovvero tornare al bisogno di senso, di significato. Pensi che sia importante?
Forse è proprio la chiave principale: indicare la ricerca dell'essenziale. L'educazione ha un ruolo determinante. Ma credo che ci sia anche un'altra rivoluzione da fare, e riguarda il fatto che l'uomo non nasce, come ci viene detto ogni giorno, “individuo”: nasce dall'incontro tra due persone. Nella sua nascita c'è già una stratificazione di eredità che, in qualche modo, sono state trasmesse. Il “noi” precede l'”io”. È questa convinzione che dovrebbe accompagnare l'idea stessa di educazione: non dobbiamo essere soltanto atomi in un deserto, ma siamo parte di una comunità, di un incontro, di un “noi”.

“L’amore necessario”, quindi, non è una questione sentimentale: è qualcosa di strutturale, ontologico. L’amore è necessario perché noi siamo relazione…
È un bisogno innato e quindi non sopprimibile. È un’esigenza naturale, e anche soprannaturale, che ci riguarda tutti e che attiene a quella sfera che un tempo si diceva “del destino”. Noi crediamo che tutto sia frutto della nostra libera scelta: in realtà gran parte dei nostri amori nascono da legami naturali. Il rapporto con la madre, o con il figlio, è qualcosa che non abbiamo scelto attraverso l'innamoramento: ci è arrivato, in qualche modo, per natura. Ma anche l'amore tra due persone diventa decisivo quando viene vissuto nella sfera del destino, ovvero come una cosa che ci rende con-sorti, “uniti nella sorte”. E questo tocca pure la società.

Anche l'ultimo capoverso di quel volantino parla di «qualcuno che ci ami e ci liberi dal male». Che effetto ti ha fatto, in questo contesto, leggere di Cristo e della Samaritana?
È un esempio pertinente: rientra ancora nell'idea che l'amore non sia possesso né dominio dell’altro, ma dedizione, capacità di darsi. In una parola, gratuità. Quella è l'unica ricchezza.

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Ma tu vedi, intorno, dei fatti che ti danno speranza?
Io mi attacco al pudore della speranza, se vuoi: al fatto che la speranza, di solito, non si mostra. Noi conosciamo i fatti più cruenti, quelli che rimbalzano nella cronaca: conosciamo molto meno la quotidianità, che è fatta di molte contraddizioni e di tanto egoismo, ma anche di dedizione naturale, gratuita, senza esibizione. È connaturata al nostro habitus, alla nostra vita: esiste ancora. Ecco, io confido molto nella virtù nascosta della speranza, nel fatto che ciò che accade di buono accade quasi sempre in sordina, ma accade. E tante volte il silenzio di certe cose può inghiottire anche il rumore della bruttura e dello scontento.

Esempi, anche piccoli?
Sono atti così ordinari che ci passano quasi inosservati: quando vedo la premura nei confronti di un bambino, o di un vecchio, o qualcuno che amorevolmente accompagna una persona disabile… Allora mi rendo conto che c'è un bene che non appare perché è ordinario, ma esiste. Ed è su quei gesti che si regge il mondo.