Abbruzzese: evviva la crisi se dà scacco matto al "cattivo" desiderio

Salvatore Abbruzzese

Caro direttore,

la “fragilità sia individuale che di massa” facilmente avvertibile nelle mille derive dei comportamenti individuali e collettivi è ricondotta dal Censis alla crisi del desiderio. Nella sua intervista al sussidiario Giuseppe De Rita riconduce questa crisi alla overdose dei consumi: “abbiamo più possibilità di scelta, ma la possibilità di desiderare ci è tolta”. Sarebbe cioè l’estensione illimitata delle scelte come dei beni a disposizione a diminuire il desiderio.
Tuttavia, se si prendono sul serio le considerazioni di Giorgio Vittadini, secondo il quale occorre recuperare un’accezione “non ridotta” del desiderio e ritornare quindi ai principi dell’antropologia cristiana, così come sono stati tradotti e riproposti da don Giussani, questa crisi del desiderio non è solo la conseguenza di un “sovradimensionamento dell’offerta”, ma anche e soprattutto l’esito di una perdita di senso dell’offerta stessa, il manifestarsi della sua scoperta inefficacia.
Nello stesso momento in cui si scopre che i consumi sono “troppi” se ne svela anche l’implicita inefficacia rispetto alle proprie esigenze reali. La crisi del desiderio coincide con il declino dell’immagine secolarizzata di una vita felice costruita individualmente, risolta attraverso la panoplia dei beni di consumo e delle relazioni umane strumentali e autoreferenziali. In pratica ciò che è in declino non è il desiderio che abita “nel cuore dell’uomo” - per riprendere qui i termini cari a don Giussani - bensì la sua forma ridotta, banalizzante e strumentale, il suo succedaneo moderno.

Il problema diviene allora - come suggerisce il volantino di Cl - quello di recuperare e legittimare la forma più autentica di desiderio, rintracciandolo là dove prende forma e dà testimonianza di sé. Il meeting di Rimini, come suggerisce Emilia Guarnieri, può costituire un esempio nella misura in cui è la punta di un iceberg. Le estese reti del volontariato cattolico e, soprattutto, le sue punte più qualificate ed eroiche, finiscono per essere testimonianza di questo desiderio non ridotto, recuperato e trasformato in imperativo quotidiano, segnale di una nuova economia del fare, strettamente connessa al recupero di una speranza radicale. Le mille opere poste in essere da una rete infinita di soggetti legati tra loro da una fede comune sono testimonianza della capacità della dimensione religiosa non solo di alimentare segmenti operanti di società civile, ma anche di ricostruire la fiducia nei desideri più profondi.

Da un punto di osservazione strettamente laico, e quindi sul terreno della sociologia della religione, non ci si può non chiedere come, in che modo, la credenza nella divinità di Gesù di Nazareth e la condivisione di questa stessa credenza all’interno di una comunità attiva ed operante, finiscano con il produrre uno spirito di iniziativa non riducibile ai semplici benefici del legame associativo, per quanto supportati da ottime qualità manageriali e da brillanti competenze professionali. Non ci si può non interrogare su di una capacità fondativa e liberatoria, presente all’interno delle opere nate da una matrice religiosa ecclesiale, capace di sfidare, in ogni epoca, i tempi di crisi e di disillusione. Esiste, in altri termini, una sovrabbondanza dell’impegno nella costruzione di ogni singola opera, che non è riducibile alle categorie classiche dell’agire associativo.

La dimensione del desiderio, così come si rivela nell’ambito della coscienza religiosa, finisce così con l’essere rivelatrice di un soggetto che non è semplice portatore di interessi, né costituisce un mero terminale di condizionamenti sociali e culturali. Questi è anche e soprattutto il custode di un desiderio radicale di felicità totale: quella che coincide con il bene, la giustizia e la verità, per tutti oltre che per sé stessi. “Non c’è che un Dio che possa soddisfarmi!”: così una devota credente della prima metà dell’Ottocento invitava implicitamente il liberale Alexis de Tocqueville a prendere atto della vera dimensione del desiderio che questi stentava a rintracciare dentro sé.
Alla fine del mondo moderno, nel declino tanto delle utopie ideologiche degli anni ’60 e ’70, quanto dello Stato Provvidenza degli anni ’80 e ’90, attraverso le luci di un mercato tanto più rigoglioso quanto insufficiente, il desiderio di Dio resta la frontiera ultima e radicale di un desiderio di felicità rimasto senza illusioni, in un mercato che ha smesso di soddisfarlo.

Lancio l’ipotesi che sia proprio la certezza condivisa di una compagnia così radicale, di una partnership così potente, che metta le ali ai volontari ed agli eroi del quotidiano. Il desiderio di vita piena non è altro che il desiderio di un legame con qualcosa o qualcuno che non tradisce e che non muore. Solo quanti credono riescono a dargli un nome, perché non c’è che un Dio che possa accontentarli.

da www.ilsussidiario.net (29 dicembre 2010)