Autocensura spagnola
(Titolo originale: Autocensura española)

Ignacio Carbajosa

«È necessario inaugurare una nuova tappa di simpatia reciproca tra l’umanità bisognosa di ognuno di noi (che ci assale a ogni svolta del cammino) e il cristianesimo»

A settembre il rientro al lavoro è generalmente accompagnato da commenti e aneddoti sull’estate trascorsa. Credo che sia un esercizio salutare riprendere la nostra convivenza imparando la lezione che ci offrono i pochi, ma importanti, eventi dei mesi estivi. In questa sede farò riferimento soltanto a un avvenimento, indubbiamente il più drammatico: l’incidente ferroviario di Santiago che, insieme con il dolore dei feriti e dei familiari, ha messo in luce un modus vivendi spagnolo che ci dovrebbe preoccupare.
Una delle cose che più mi rattristano quando le tragedie bussano alla nostra porta, è vedere il dolore degli spagnoli: un dolore privo di senso. Questa mancanza di senso è rafforzata da un’abitudine tipicamente nostra, dato che non si verifica in nessun altro paese europeo, in circostanze di questo genere, e tantomeno in altri continenti. Un’abitudine che è cresciuta negli ultimi decenni: l’autocensura (non credo che si tratti, salvo in pochissimi casi, di una censura programmata) che ci imponiamo in ambito pubblico. Ci sono cose di cui non si può parlare sulla pubblica piazza. Ci sono cose che un rappresentante pubblico non può dire. E, tra queste, tutte le cose che rimandano al significato della vita, sia le domande essenziali di ogni essere umano (e nel dolore se ne pongono molte), sia le risposte che sono state date alle stesse.
Per una specie di legge non scritta ci imponiamo un limite nei rapporti pubblici: possiamo parlare di quel che è comune a tutti, di quel che è «naturale», sempre che ciò che è naturale non porti a una domanda religiosa, terribilmente imbarazzante in una conversazione che esuli dall’ambito privato. Le immagini dei corpi sparsi sui binari, il dolore dei loro parenti, ci portano naturalmente a parlare di dolore, di tristezza, di patologie post-traumatiche e, come risposta, di affetto e solidarietà. Ma questo è sufficiente ai familiari che hanno perso i loro cari? Evidentemente no. E forse qualcuno direbbe: «Non c’è niente da fare, per la morte non c’è rimedio». Ma la lunga ombra dell’apostolo Giacomo che dalla sua cattedrale vede i rottami del treno sinistrato si ribella davanti a un’affermazione come questa. Storicamente, è arrivata fino al nostro Paese la notizia di un uomo che è resuscitato dai morti, spezzando i legami della morte.
Diciamolo a voce alta: non è qualcosa di «comune» a tutti, non è qualcosa di naturale (potrebbe esserlo il timore della morte o il ribellarsi a essa). È qualcosa di storico. Si chiama avvenimento cristiano. Una proposta di senso che in pochi secoli ha conquistato la popolazione europea, liberandola dalla paura della morte e dal mondo degli idoli.
Nella recente Enciclica Lumen fidei Papa Francesco, a quattro mani con Benedetto XVI, ha definito la fede come una luce che Gesù Cristo ha portato per illuminare un mondo immerso nell’ombra della morte. Purtroppo, dice la stessa Enciclica, «l'uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande».
Il nostro Paese, oltre qualsiasi ideologia, ha bisogno della presenza pubblica (come pubblica fu la presenza dei primi cristiani) di questa luce grande, liberamente offerta all’umanità di ciascun uomo. Il viso sconvolto dei familiari delle vittime lo richiede.
Abbiamo bisogno di illuminare una nuova fase nella convivenza tra spagnoli, in cui esista una comunicazione sincera (senza censure), da esperienza a esperienza. Tanto dolore (e non mi riferisco solamente a quello degli incidenti, ma a quello della vita quotidiana) lo reclama a gran voce. Una nuova fase in cui esista una reale comunicazione delle nostre necessità, dolori, drammi e domande, e insieme una leale apertura a ogni proposta (sempre «storica») di senso che abbia la carità di venire incontro al nostro sconcerto. Abbiamo paura della capacità di verificare che ha ogni persona?
Una convivenza che non voglia continuare a rendere orfani quelli che soffrono richiede che lo spazio pubblico non si intenda come «luogo neutrale», privo di proposte e pieno di parole vuote, ma come spazio di comunicazione voluto e sostenuto da esperienze e proposte.
L’ideologia ha fatto molti danni nel nostro paese. Non soltanto le svariate ideologie di sinistra e destra. Anche certe esperienze «religiose» che si sono vissute (o imposte) come ideologie. È necessario inaugurare una nuova tappa di simpatia reciproca tra l’umanità bisognosa di ognuno di noi (che ci assale a ogni svolta del cammino) e il cristianesimo. Ce lo richiede il dolore dei familiari. Chi ha qualcosa di interessante da proporre alzi la mano e faccia un passo avanti. Nella pubblica piazza. Perché il dolore è stato pubblico.

Ignacio Carbajosa è ordinario di Letteratura biblica all’università San Dámaso di Madrid e responsabile nazionale di Comunione e Liberazione


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