Cambiano i programmi. Ma che storia è questa?

Scuola
Serenella Carmo Feliciani

L'ambigua formula "una sola volta e bene"

Non giunge inaspettata la rivoluzione ministeriale nello studio della storia, contenuta nei nuovi curriculi che stanno filtrando in questi giorni. Che un rinnovamento fosse necessario , di fronte alla grave mancanza di senso storico delle nuove generaziioni, è fuori discussione. Ma già da anni il ministero teneva pronta una sua soluzione, elaborata dai teorici degli Istituti Nazionali per la Storia del Movimento di Liberazione in italia e dal Laboratorio Nazionale per la didattica della storia. Innanzitutto puntare sulla contemporaneità, a costo di sacrificare il resto (D.M. 4/11/96 di Berlinguer sui programmi delle superiori). Inoltre, ai vecchi obiettivi conoscitivi si deve anteporre l'acquisizione di "competenze", o capacità operative (come già anticipato nei Programmi per gli istituti professioneli del 1997). Con lo slogan "Non è più la stessa storia" diffuso in tutti i corsi di aggiornamento ministeriali, alla "visione cronologico-lineare" della storia si sostituiva "una connessione reticolare di conoscenze", adatta alla didattica modulare. Alla storia "eventografica", basata sui fatti si sostituivano "modelli" storiografici, "contesti", "mappe cognitive", "sfondi integratori" Una visione innovativa, senza dubbio: ma è ancora storia? E adesso che sappiamo cosa studieranno (e cosa non studieranno più) in storia gli studenti italiani, dobbiamo dire che questo curricolo suscita gravi perplessità in chi ha pratica di insegnamento. L'unicità del ciclo di storia: da anni gli sperti del ministero tuonavano contro il "dogma" della "ripetizione ciclica", considerato insieme al "programma cronologico lineare" un sostanziale ostacolo alla riforma. Ma l'unica ragione che portava contro la "ricorsività" è che essa sia pura ripetizione, misconoscendo così il valore del ritornare su argomenti già svolti con strumenti critici via via adeguati al processo evolutivo. Lo slogan "una sola volta e bene" lascia un legittimo dubbio sul "bene": cosa resterà ad esempio del mondo classico e medievale studiati a 10-11 anni e poi mai più? Una didattica che tanto (in teoria) sottolinea il valore dell'acquisizione di un metodo potrà fornire a ragazzi così giovani un' idea degli approcci storiografici propri dell'antichistica e medievistica attuali? E' innegabile che questo impoverirà il patrimonio di conoscenze storiche minimali dell'italiano medio, dando un duro colpo alla coscienza della tradizione europea. E cosa dire riguardo al fatto che fino all'inizio della scuola superiore (13 anni) un ragazzo non avrà ancora studiato la Shoah e Stalin? Vorremmo infine rilevare che porre la conclusione del ciclo di storia del biennio delle superiori implicherà sicuramente discontinuità. Troppo affrettatamente si è rifiutata l'idea di due cicli di storia generale coincidenti con i cicli scolastici stessi. Ma la cosa più grave è la decisione di ritardare fino al quinto anno lo studio della storia, sostituito con un approccio sociologico-antropologico per di più di stampo economicista. In un'età in cui i giovanissimi manifestano generalmente un vivace interesse per personaggi e fatti della storia (ovviamente se presentati in modo adeguato alla lora psicologia), li si annoierà con astratti "qudri di società". Si introdurrà surrettiziamente l'idea che ciò che determina la vita umana siano i "modi di produzione" di marxiana memoria, formando un atteggiamento mentale che non sarà poi facile modificare, e che non ci sembra giochi a vantaggio di un corretto approccio storico, che non può mai guardare in modo unilaterale alla complessità della realtà umana. Ma soprattutto si farà passare l'idea che lo storico può solo costruire modelli, mettendo in secondo piano i fatti e le persone reali del passato: il fascino stesso della storia. Un'ultima osservazione: l'approccio "mondialistico" che pretende ad esempio di mettere sullo stesso piano Medievo europeo e civiltà coeve dell'Africa subsahariana condanna l'allievo ad un apprendimento enciclopedistico, e non costituisce certo una risposta seria ai problemi del dialogo interculturale. Non ritengo, e con me moltissimi insegnanti, che una riforma nell'insegnamento della storia sia di per sé nagativa, se obbliga a ripensare le modalità di un insegnamento scialbo e ripetitivo, a dare più valore alle persone degli alunni, piuttosto che allo svolgimento di vecchi programmi. Ma c'è da temere che alla prescrittività di contenuti si sostituisca una nuova e molto più oppressiva prescrittività pedagogico-didattica. Insegnanti seri e preparati non vogliono essere costretti a insegnare la storia secondo approcci metodologici superati. Fissi lo Stato gli obiettivi da raggiungere e lasci liberi gli insegnanti di conseguirli nel modo che ritengono pedagogicamente e scientificamente più corretto. La posta in gioco è grave. le migliori intenzioni, quale quella fornire al cittadino la capacità di "costruirsi autonomamente conoscenze storiche", non possono realizzarsi cancellando conoscenze storiche essenziali del passato che più ci riguarda, stroncando in nome di un astratto operativismo il già debole senso storico di questa generazione di giovani.


*Redazione di Linea Tempo