«Ci hanno strappato i figli». Un solo dolore, per arabe o ebree
Un documentario racconta le storie di undici madri, di entrambe le parti, che
hanno perso i loro bambini
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI GERUSALEMME - «Io ho, voglio dire avevo, due
bambini». «Non so mai dire quanti bambini ho o avevo». «Detesto
quando mi chiedono quanti bambini ho, sono sempre stati tre: come rispondo a
una domanda così?». Undici madri. Undici agonie. Donne israeliane
e palestinesi che provano a raccontare il dolore che non si può raccontare:
tutte hanno perso almeno un figlio molto piccolo nei tre anni e mezzo di intifada,
tutte hanno accettato di parlare davanti alla telecamera della regista Adi Arbel.
Cinquanta minuti di monologhi, sedute nei loro soggiorni, alle spalle le foto
dei bimbi che non ci sono più, in braccio quelli che sono rimasti o arrivati
dopo. Cinquanta minuti intitolati Ninnananna, ma che non cercano e non portano
sogni tranquilli. «Una signora francese che ha finanziato il documentario
- racconta Adi Arbel, 34 anni, di Tel Aviv - mi aveva chiesto di metterci un
po' di speranza, almeno nel finale. Io le ho inviato il materiale girato e le
ho chiesto: dov' è la speranza? Se riesci a trovarla in questi volti,
fammela vedere. Neppure una nuova gravidanza può riempire quella voragine
che è in ogni cellula del loro corpo. Lo capisci quando le senti raccontare
che la morte dei figli è la cosa a cui pensano quando si svegliano al
mattino». La prima madre che Adi ha incontrato è Ronit Ilan, di
Rishon Letzion, una cittadina a sud di Tel Aviv. Ronit ha perso due bambini in
un attentato terroristico (Lidor, 10 anni, e la piccola Uriya, un anno). Quel
giorno vennero uccisi anche suo fratello, la moglie e i loro tre figli, ma per
lei non c' era altro pensiero, spazio per altro dolore. «La mia unica consolazione
- dice Ronit nel documentario, che verrà trasmesso martedì prossimo,
il giorno della Pasqua ebraica, dal Canale 2 in prima serata - è che alla
fine arriva la morte e con la morte non c' è più la sofferenza
per loro. A volte mi chiedo se sarebbe stato meglio non averli avuti, non averli
conosciuti e amati. Non ho una risposta». In tre anni e mezzo di intifada
- scrive il quotidiano Haaretz - sono morti 122 israeliani sotto ai 18 anni e
468 palestinesi (di cui 255 sotto ai 14 anni). Susan Hajo, di Gaza, ha perso
Iman, 3 mesi, quando la loro casa è stata colpita dal proiettile di un
carrarmato. Racconta nel film: «Ho riaperto gli occhi e ho visto mia figlia
vicino a me, il sangue le usciva dalla bocca. L' ho presa in braccio, l' ho posata
sotto a un albero, mi sono distesa sopra di lei. Non so perché l' ho fatto».
Adi Arbel ha una bimba di tre anni, Anna. Da pochi mesi è incinta di un
secondo bambino. Ha dovuto aspettare che finisse il montaggio, anche solo per
pensare a un altro figlio. «Mentre stai girando - dice la regista, che
ha lavorato con una troupe composta da donne - sei troppo concentrata. Segui
tutti gli aspetti tecnici, quasi non ascolti. Ma chiusa nella cabina di montaggio
ho sentito queste madri ripetere e ripetere la loro disperazione. Non potevo
immaginare una nuova gravidanza». Le interviste alle palestinesi sono state
fatte dalla giornalista Nidal Rafa, 27 anni, che vive a Gerusalemme Est e si
definisce «un' araba palestinese cittadina d' Israele». Mentre Nidal
parlava con loro in arabo, Adi seguiva gli sguardi e le espressioni sul monitor.
Senza capire le parole, piangendo. «Abbiamo spiegato da subito che avremmo
mostrato madri di tutt' e due i fronti, abbiamo chiarito che non volevamo produrre
un documentario politico. Che un dolore così è lo stesso da una
parte e dall' altra».