CL & Politica. Israel: anche i "valori non negoziabili" possono diventare slogan...

Giorgio Israel

L’unità politica dei cattolici è finita molto tempo prima che iniziasse la parabola discendente della Democrazia cristiana. Un fattore importante fu la scelta del Partito comunista di avviare un intenso “dialogo” con i cattolici basato sull’idea che le istanze sociali cristiane potessero trovare un luogo naturale nel movimento socialista e comunista che, a sua volta, gettava alle ortiche il “vieto” (come si diceva allora) ateismo di stile sovietico. Fu un’iniziativa di successo che spostò una parte consistente nel mondo cattolico a sinistra, ancor prima che finisse la Guerra fredda, che spingeva il mondo cattolico a schierarsi col blocco occidentale. Ricordo quando, negli anni Settanta, uno degli intellettuali comunisti più attivi nel “dialogo”, Lucio Lombardo Radice, mi disse con compiacimento di “essere nella manica” di un influente cardinale. Poi, la fine dei blocchi contrapposti, il disfacimento della Dc, la fine dei partiti comunisti ufficiali, han chiuso definitivamente ogni spazio per la ricostituzione di un movimento politico dei cattolici.
La scelta del cardinale Ruini, nella sua qualità di Presidente della Cei, di dare per scontata la disseminazione del mondo cattolico nei vari movimenti politici e di puntare con decisione sulla difesa dei valori fondamentali caratterizzanti l’identità cattolica, i valori “non negoziabili”, è stata una delle risposte più intelligenti e feconde alla dissoluzione dell’unità politica dei cattolici. Tuttavia, c’è chi non si è rassegnato all’ineluttabilità di tale dissoluzione. Risultando estremamente difficile, se non proibitivo, riproporre quell’unità nelle forme partitiche del passato – che, come si è detto, erano in via di sgretolamento ben prima della caduta del Muro – è emersa la ricorrente tentazione di indicare il movimento in cui ciascuno aveva deciso di svolgere la propria azione politica come il polo “giusto”, come il luogo ideale in cui tutti i cattolici potevano vedere difesi nel modo ottimale i propri valori.
Anche questa si è rivelata un’illusione e gli eventi recenti ne costituiscono la prova. Al tentativo di identificare questo o quel movimento come il polo “ideale” sono seguite disillusioni che si stanno risolvendo nella dislocazione del mondo cattolico un po’ dappertutto. Anche in Comunione e Liberazione tali illusioni hanno trovato spazio e, dopo qualche sbandamento, hanno dato luogo – a testimonianza della fondamentale salute del movimento – al documento che stiamo commentando che, molto correttamente, definisce l’ambito in cui si colloca Cl, che è “una testimonianza di fede pertinente alle esigenze della vita”. Il documento si riallaccia ai giudizi formulati da don Giussani quasi quarant’anni fa, così chiari che si commentano da soli, e sono completati dalla frase di Benedetto XVI quando parla di un contributo dei cristiani che diviene decisivo quando «l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e di trasformazione». Sta alla libera coscienza del singolo cercare le vie concrete per rendere operante, anche sul terreno politico, tale intelligenza della realtà.
Ma qui sorge una questione cruciale. L’intelligenza della fede e la corrispondente intelligenza della realtà non sono mai un deposito statico, acquisito una volta per tutte, bensì qualcosa che deve essere essere continuamente vissuto e rinnovato: un’intelligenza della fede che si approfondisce continuamente e continuamente si misura con una realtà che muta. La scelta del cardinale Ruini di cui si diceva aveva come complemento necessario il compito di approfondire i principi della fede e della sua presenza nel mondo. Altrimenti, anche quei “principi non negoziabili” sarebbero divenuti un vuoto manifesto, sarebbero divenuti paradossalmente una sorta di politica minimalista: un elenco di “richieste” da fare al mondo “esterno”, e non qualcosa che nasce e continuamente si alimenta del pensiero di una comunità religiosa. Ad esempio, i tentativi prodotti dal “Progetto culturale” nella individuazione dei principi di un’educazione corrispondente a una visione cristiana, andavano nella giusta direzione, se pure non hanno prodotto molti risultati.
Chi scrive non è un cristiano, ma credo che noi ebrei si abbia con i cristiani molti problemi in comune, che assumeranno caratteri dirompenti se non riusciremo a veder chiaro entro noi stessi, ed entro la nostra esperienza religiosa. Dopo aver sviluppata una lucida e profonda analisi sul matrimonio gay e le sue implicazioni morali e antropologiche, il gran rabbino di Francia Gilles Bernheim ha rilasciato un’intervista al quotidiano cattolico La Croix in cui lancia un grido d’allarme fortissimo: «Abbiamo ampiamente perso la comprensione, insieme teorica e pratica, di quello che è il senso morale». Non sto ad approfondire le motivazioni che, secondo Bernheim, sono alle radici di questa perdita e che, per tanti versi, sono in consonanza con vari interventi di Benedetto XVI. Voglio solo sottolineare il coraggio di aver pronunciato queste parole: «senso morale». Troppi oggi ne hanno paura come se evocassero la condanna delle minigonne, e preferiscono parlare di “etica” (da cui la sopravvalutazione di quella singolare entità che è la “bioetica”, una categoria pratica che ha come essenza la negoziazione e cioè il contrario dei valori morali).
La dissoluzione dell’unità politica delle comunità religiose non è un dramma, e può anzi essere vissuta come un fatto positivo, se non si rinuncia a coltivare e sviluppare il tessuto unitario più importante: i principi morali che sono alla base dell’esperienza religiosa. Se smettiamo di coltivare questo tessuto allora sì che ogni unità è persa e non resta più nulla. Diversamente conquisteremo forme di unità insperata: l’azione politica delle persone, nei luoghi che riterranno più opportuni non creerà problemi.
La società contemporanea pone sfide enormi cui il pensiero religioso non può sottrarsi. Tra tutte la posizione da prendere di fronte a un dilagante materialismo sostenuto fallacemente con presunte prove “scientifiche”. È possibile aderire alla nuova dogmatica delle neuroscienze, per cui la coscienza, la morale, il libero arbitrio, e persino la fede religiosa sono ridotti a una questione di neuroni e di genetica, e l’educazione, l’istruzione, le relazioni interpersonali a una faccenda da gestire in termini biomedici? Penso che se si accetta questo la possibilità di una morale è esclusa, finita, distrutta alla base. Per dirla alla Dostoevskij, “Dio è morto e tutto è possibile”. Anche la “difesa della famiglia” diventa una parola vuota se subiamo una visione materialista per il terrore dello scientismo dominante. Eppure vediamo che tante persone attorno a noi, che pure si dichiarano religiose, accettano questo punto di vista, forse per il timore di essere etichettate come reazionarie e oscurantiste.
In quanto ebreo, sono esterno al movimento di Comunione e liberazione con cui ho però avuto diverse esperienze, sempre molto positive e stimolanti. Ho letto diversi scritti di don Giussani e sono stato particolarmente interessato e attratto dalle sue riflessioni su un problema che gli stava particolarmente a cuore, quello educativo. Ebbene, confesso che talora resto atterrito da una cacofonia di voci, alcune delle quali in assoluta dissonanza con il pensiero di don Giussani. Beninteso, nessun pensiero umano è qualcosa di assoluto e nessuno è tenuto ad aderirvi in modo supino. Ma per un movimento vivo e autentico il riferimento a un fondatore non può essere il vuoto richiamo a un nome come a uno stendardo. Sono convinto che un movimento vitale come Comunione e liberazione, nel momento stesso in cui si richiama al senso profondo delle sue origini, saprà mettere al centro della propria riflessione e della propria azione questi temi vitali ponendosi come obiettivo il dissipare la confusione che oscura le menti. Citerò don Giussani, al riguardo: «Quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore aizzando le già naturali incertezze, è venuto il tempo della persona».


© www.ilsussidiario.net