CL & Politica. Sapelli: la lezione di don Giussani, i valori e l'unità "sbagliata"

Giulio Sapelli

La chiamata della sentinella della notte giunge sempre quando il nostro cuore non è preparato ad ascoltare quel richiamo. Esso è un grido lacerante che ci dilania il cuore perché ci chiama alle nostre responsabilità e ci pone dinanzi alla grande questione della modernità, che si avvia oggi non verso una postmodernità che non esiste, quanto, invece, verso un’era di post-secolarizzazione.
L’esperienza del sacro e quindi della fede e della chiamata risorge impetuosa nel mondo, in tutto il nuovo mondo che sorge epifanicamente intorno a noi, persone di un vecchio continente che crede troppo spesso all’autosufficienza di una fede che non parla più il linguaggio consueto che troppo spesso recitiamo clericalmente, ma ci deve impegnare nuovamente, invece, con lo spirito del cristianesimo delle origini. La storia delle prime comunità cristiane, allora, diviene la nostra storia e noi dobbiamo vivere la vita come una chiamata e un’assunzione continua di responsabilità dinanzi a Chi ci chiama: a Dio e all’Eterno, al destino che si inscrive nella Provvidenza e che ogni giorno ricerca una nuova Pentecoste. 
L’Europa, in questo senso, è terra di missione, perché è l’ultimo lembo di una secolarizzazione che in tutto il nuovo mondo, compreso gli Usa, sta morendo e che invece nel continente europeo persiste e si incancrenisce. Questo è il frutto di un nichilismo che elimina dall’ orizzonte umano la trascendenza e colma l’esperienza personale di immanentismo radicale che si insinua in ogni manifestazione della vita umana. 
La politica, se ha un senso, non può non essere per il cristiano che sempre attende la chiamata della sentinella della notte, la politica per il cristiano non può che essere, oggi, qualcosa di ben più grande e pervasivo del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Oggi la politica deve essere unità di distinti, ma nel contempo interrelazione tra la chiamata a cui dobbiamo rispondere come persone libere e appartenenza al popolo di Dio. Un Dio che chiama e che è sempre presente: ci sceglie, non è scelto. È questa presenza che dobbiamo conservare e diffondere con la testimonianza in qualsivoglia azione umana, individuale o associata. La politica non può più essere solo der weg zu macht, ossia la via al potere, ma deve essere sempre testimonianza. Personale testimonianza nella libertà di azione e di assunzione di responsabilità nella pienezza della libertà. 
Ma la libertà non esiste senza obbligazione. Obbligazione che è sì giuridica se siamo buoni cittadini, ma che è anche e soprattutto obbligazione alla trascendenza possibile e alla santificazione della vita attiva nel lavoro e nella politica. L’azione in comunità inizia il cristiano all’assunzione di responsabilità, ma non può sostituire o costituire altro che la sua area di responsabilità personale, solo e sempre personale. 
Se così non fosse ogni testimonianza perderebbe il suo essere testimonianza di vita attiva che lavora per testimoniare la fede nella teodicea, ossia nella salvezza. Ebbene, non esiste una teodicea di gruppo o di comunità. La salvezza è sempre e solo una salvezza possibile personale e che sfida l’essere umano in ogni momento della sua vita. 
Questo impone una interrelazione ma anche una separazione tra le sfere, se vogliamo che esse siano irrorate dalle diverse obbligazioni a cui ci doniamo. Se abbiamo delle obbligazioni sacramentali o che ci destinano a una trascendenza testimoniale di salvezza comunitaria, non possiamo porre questa testimonianza comunitaria a rischio per gli errori che come persone possiamo compiere. Il curato di campagna di Bernanos testimonia la sofferenza della solitudine dell’appartenenza al sacramento sacerdotale e non può condividere questa testimonianza con l’assunzione di corresponsabilità pubbliche, che nella loro strada incontrano inevitabilmente l’ostacolo della mediazione e del compromesso connaturato alla politica. Il potere viene dopo: prima vi è il compromesso e la mediazione imposta dalla convivenza con coloro che la chiamata non sentono e che dalla chiamata non sono raggiunti. 
Questa è la libertà, questo è il pluralismo che per troppo tempo teologicamente le chiese cattoliche e protestanti hanno negato. Chi si sente chiamato come destino ultimo e totalizzante alla vita sacramentale o devozionale, deve astenersi dalla vita politica attiva: si limiti a quella passiva, interiore come interiore può essere ancor più grande la libertà. Scendere nell’agone politico senza questa consapevolezza pone a rischio la vita stessa della Chiesa e pone le basi per la tracimazione dell’errore individuale in errore comunitario, perché l’esperienza dell’angelo caduto è ogni giorno presente nella nostra vita. Quindi, se esiste un’identificazione tra politica ed esperienza non devozionale, si badi bene, ma ontologicamente sacramentale, essa non deve essere. 
Il cristiano può scendere nell’ agone politico, certo, ma solo con se stesso e la propria coscienza e la propria fede per difendere il sistema di valori non negoziabile su cui la politica deve essere campo non di mediazione, ma di convivenza della differenza weberianamente valoriale e habermasianamente intesa come spazio di pubblica argomentazione. Accanto alla non negozionabilità dei valori ultimi dell’esperienza post-secolarizzata che rinasce, esistono infinite scelte di libertà che impegnano il cristiano come persona e come persona libera che agisce, mosso dal servizio e dalla spinta alla santificazione della politica attraverso la propria testimonianza. Dove non esistono valori non negoziabili le scelte sono infinite: dalle utopie rivoluzionarie alle tracimazioni reazionarie. 
 Siamo tutti figli dello stesso Padre ed Egli a sè tutti ci chiamerà sulla base dell’impegno sui valori non negoziabili e non sull’impegno in merito ai valori negoziabili. Per il cristiano − come per il rivoluzionario − le virtù essenziali sono la pazienza e la lungimirante prudenza di impegnare solo se stessi nell arena politica. Per questo è giusto ricordare i richiami di don Giussani che non possono che essere condivisi. Ma sarebbe anche giunto il momento di interrogarsi se questi richiami non sono stati inascoltati unificando ciò che non doveva e non deve essere unificato: la spinta trascendente e l’esercizio del potere da parte di coloro che dovevano donare solo e sempre soltanto una esperienza religiosa e di fedeltà alla teodicea, salvando se stessi e con se stessi il senso ultimo della vita terrena cristianamente donata.

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