Corbetta: no, felicità e pmi sono frutto di un’opera comune

Guido Corbetta

Uno tra gli studiosi di management più famosi al mondo, il canadese Danny Miller, ha scritto un libro per spiegare il successo prolungato nei decenni di alcuni grandi gruppi aziendali come Cargill, Bombardier, Ikea, Michelin. Secondo Miller, in queste imprese “i figli dei proprietari hanno passato decenni accanto ai genitori assorbendo costantemente la passione per la missione e per la società, in condizioni emotivamente affascinanti e non sentono che l’azienda appartiene a loro, ma che loro appartengono all’azienda, e che devono esserne all’altezza”. In queste imprese i dipendenti si affezionano alla società perché la identificano con una famiglia e la famiglia proprietaria, dal canto suo, si impegna a scegliere, far socializzare, formare e seguire i propri dipendenti perché sono loro che hanno il compito di badare all’impresa, il loro bene più prezioso. Nei contatti con i partner commerciali le relazioni “eccedono di gran lunga il periodo, lo scopo e il potenziale delle episodiche transazioni di mercato o contrattuali” per fondarsi invece sulla convenienza di lungo termine.

In buona sostanza, per usare le parole di Julián Carrón, in queste imprese i proprietari, i dipendenti, i clienti e i fornitori sono convinti che “la loro opera è un bene per tutti”.

È difficile uscire culturalmente dal paradigma della massimizzazione del profitto e della massimizzazione del valore azionario che ha dominato almeno gli ultimi trent’anni della teoria e della prassi economica. Paradossalmente la crisi che ha investito le economie di tutto il mondo potrebbe avere un risultato positivo: aiutarci a prendere sul serio un altro paradigma secondo il quale la felicità non è la conseguenza dell’accumulo personale (“la massimizzazione del valore azionario”), ma della capacità di partecipare alla costruzione di una realtà bella e utile per tutti (“la massimizzazione del valore dell’impresa”). L’imprenditore, secondo questo paradigma, ricerca la propria soddisfazione preoccupandosi anche della soddisfazione dei propri dipendenti e dei propri clienti. Non solo per una buona disposizione d’animo (che pur non guasta), ma perché è consapevole che senza la soddisfazione dei collaboratori e dei clienti il valore della propria impresa, prima o poi, è destinato a scomparire. La mia utilità, in definitiva, coincide con l’utilità degli altri che lavorano con e per me.

La crisi che ha investito il mondo ha anche, forse soprattutto, una spiegazione antropologica. Se il modello che si afferma è quello della ricerca della felicità fondata sull’accumulo e a prescindere dagli altri, è destino che prima o poi esplodano sempre nuove bolle speculative o, peggio, conflitti sociali difficili da contenere. Perché limitarsi nella propria smania di accumulare ricchezza, potere, consenso?

Gli imprenditori delle imprese studiate da Miller e le centinaia di imprenditori italiani di imprese di ogni dimensione che si comportano secondo un paradigma diverso, che rappresentano un “altro tipo d’uomo” non possono essere trattati come una eccezione al comportamento (supposto) prevalente che prevede che ognuno sia impegnato solo a massimizzare il proprio tornaconto personale. Sono un dato di realtà, un fattore che deve essere tenuto in considerazione. Anzi, sono un modello sul quale varrebbe la pena di costruire cercando di impegnarsi per diffondere una concezione della vita economica che ne faciliti la sua diffusione.

Un modo per ridurre la “forza culturale” di questo modello è confinarlo all’interno della cerchia dei comportamenti dettati da un determinato credo religioso. Niente di più sbagliato. È ragionevole per tutti cercare di costruire una impresa e una società dove gli interessi di ognuno siano ordinati ad un bene comune. Risponde all’interesse pratico di tutti perché non è ragionevole desiderare di vivere in una società dove non ci si possa fidare degli altri, dove si debbano costruire regole sempre più dettagliate (e inefficienti?), dove ogni tanto scoppia una nuova crisi sempre più devastante.

Da www.ilsussidiario.net (2 dicembre 2009)