Davison (anglicano): l’incontro coi cattolici ha salvato la mia fede

Redazione - Intervista ad Andrew Davison

«La cosa da fare è considerare la nostra inadeguatezza nell’afferrare la Verità e la Divinità come una dimostrazione della grandezza di questa Verità, non di una sua debolezza. Questa è stata una delle svolte decisive nella mia vita». Andrew Davison, teologo anglicano docente a Cambridge, parla in questa intervista a ilsussidiario.net del suo particolare percorso di fede.

Andrew Davison, per certi versi, la sua carriera accademica risulta un po’ sorprendente, dato che lei ha studiato chimica e poi è diventato un teologo. Può spiegarci le motivazioni alla base di questo percorso? Non le piaceva più la chimica?

Tutt’altro, mi piaceva moltissimo, fin da bambino. A scuola ero tra i più bravi nelle materie scientifiche e quindi all’università mi iscrissi a scienze, laurea in chimica e poi un dottorato in biochimica. Mi sembrava di poter diventare un bravo scienziato senza per questo rinunciare a prendere sul serio la mia fede cristiana. All’università, invece, sopraggiunse una grave crisi di fede. Qualche anno prima avevo lasciato la Chiesa anglicana per entrare in una Chiesa carismatica indipendente, una Chiesa pentecostale. Per molti versi è stata una buona cosa. Ho letto tutta la Bibbia, che ora conosco molto bene, e ciò mi è stato utile, ma sono entrato in università convinto che il mondo fosse stato fatto seimila anni fa in sei giorni. Dopo qualche settimana a Oxford, mi sono reso conto che ciò non era vero e, cosa peggiore, che i cristiani che avevano cercato di sostenere questa interpretazione della Bibbia avevano usato un pessimo metodo scientifico, al limite della disonestà. Questo mi causò una grave crisi di fiducia. La mia fede era interamente fondata sulla Bibbia, la Bibbia che non richiedeva alcuna interpretazione, in cui tutto era chiaro. Ma se i primi due capitoli della Genesi non erano letteralmente veri, come potevo fidarmi del resto della Bibbia? Mi vergognavo troppo di questa crisi per parlarne con qualcuno, perciò mi impegnai in attività missionarie, gruppi di preghiera e così via, nel tentativo di mantenere la fede con la forza di volontà. Avrei finito per abbandonare tutto, se nel frattempo non fossi diventato amico di alcuni cattolici.
Quando mi decisi a parlare con loro dei miei problemi, mi fu presentata una tradizione di fede che poteva accogliere senza difficoltà tutta questa problematica, una teologia senza paure filosofiche, per esempio in San Tommaso D’Aquino. L’altro fattore che ha salvato la mia fede è stato ritrovare un cristianesimo liturgico ed ecclesiale nell’anglicanesimo saggio, umano e cattolico incontrato nel mio college. Ricordo una domenica di Avvento in cui andai nella cappella del college e fui colpito dalla straordinaria sensazione che l’intero anno stava accadendo di nuovo, per la duemillesima volta, che la Chiesa stava di nuovo ripetendo la storia partita nell’oscurità con la speranza del Messia. Il cristianesimo del mio periodo protestante era individualista, qui io ero parte di una comunità che si estendeva per tutto il mondo e attraverso il tempo. Questo mi faceva sentire incredibilmente sicuro: tutte le cose che mi avevano tenuto sveglio in malo modo, ora mi tenevano sveglio in un modo buono. Cominciai a pensare di più alla teologia che non alla biochimica, un segno che forse non dovevo diventare un biochimico. Un altro segno venne dal lavoro di volontario che avevo iniziato in un ricovero dove assistevo i moribondi, e rimasi colpito nello scoprire che questa era la cosa che più mi soddisfaceva nella settimana. Era terribile sotto molti aspetti, faticoso e duro, ma prendeva tutto di me, la mente, il cuore. A volte la sola cosa possibile era sedersi vicino a qualcuno che stava morendo e tenergli la mano. Decisi allora che questo era quello che volevo fare, in un modo un po’ più pastorale. Una delle cose cui sono più interessato è cercare di aiutare chi si trova tra i dubbi e nella crisi di fede in cui mi sono trovato io.

Può descriverci la sua esperienza alla Facoltà di Teologia e quali autori la hanno più influenzata?

Come studente di teologia, gli autori che hanno avuto su di me il maggiore impatto sono stati san Tommaso e, forse ancor prima, Sant’Agostino. E poi Platone, per quanto sia strano citarlo tra i teologi cristiani, ma credo che Platone sia una delle vie con cui Dio ha preparato il pensiero occidentale alla verità cristiana.
Chiaramente lo studio della Bibbia accompagna tutto questo percorso, e vorrei sottolineare che il dato più importante del suo studio storico critico è che non si può avere Bibbia senza Chiesa. Il tentativo ottocentesco, di ispirazione protestante, di ricerca del Gesù storico, lasciando da parte non solo la tradizione, ma anche la Bibbia, per giungere alla persona storica è stato ben definito da Albert Schweitzer un pozzo, e se si guarda in un pozzo la faccia che si vede riflessa è la propria. Un progetto illuminista, come quello di Jefferson negli Stati Uniti, che produsse una Bibbia da cui erano stati tagliati tutti i passi ritenuti non autentici. Il risultato: un libro che sembra tale e quale a Jefferson. Si può anche pensare che la scrittura dei Vangeli sia un lavoro di interpretazione, ma io mi fido di più di Matteo, Marco, Luca e Giovanni che di questi studiosi tedeschi dell’Ottocento. Pur non definendomi un loro seguace, altri autori per me importanti sono stati per esempio Karl Barth e von Balthasar. A Cambridge ho conosciuto il lavoro di John Milbank, che ritengo uno dei più interessanti teologi contemporanei.

È vero che lei è stato particolarmente colpito dal Rischio educativo di Don Giussani e dall’importanza da lui data all’educazione?

Ho imparato molto da questo libro, che penso contenga un messaggio veramente importante, ma anche un invito a un cambiamento talmente radicale nel modo di fare le cose, che ancora non ho osato seguire completamente. Non posso di certo affermare di insegnare secondo Il rischio educativo, ma vorrei tentare. La prima cosa in cui mi sono imbattuto è una citazione di Stanley Hauerwas, il teologo americano che, da protestante, denuncia il rischio protestante di esaltare le idee piuttosto che la prassi, e che citava il Rischio Educativo. Se la nostra fede rimane al livello delle idee non potrà resistere all’assalto della cultura non cristiana, ma se la nostra fede è diventata una pratica concreta, allora avremo qualcosa che ci terrà saldi. Stavo scrivendo anch’io su questi temi, ma non avevo mai visto nessuno trattarli in modo così chiaro e con tale sicurezza come Giussani.
Amo Il rischio educativo perché propone il suo metodo, anche al di fuori dell’educazione, ma offre sfide particolari a chi è coinvolto nell’educazione. Il punto che mi fa sentire peccatore, o quantomeno debole, è l’invito a dedicare molto tempo e una preoccupazione reale per le persone così come esse sono, e io sono uno molto occupato. Mi piace stare in classe e, probabilmente, insegno bene, ma quello che dice don Giussani è che bisogna anche mostrare il proprio amore, e per me questo significa dedicare il mio tempo. Bisogna avere voglia di dare tempo agli studenti che vengono a parlare e il tempo passato nella mensa o nel bar del college non è tempo sprecato. E io non riesco a farlo, visto che sono uno che tende ad affollare la propria giornata con insegnare questo, scrivere quest’altro, parlare con quell’altro.

Il tema del Meeting di quest’anno è la certezza. Per quali vie la fede personale porta alla certezza? L’esperienza è una di queste vie?

Sono probabilmente una delle poche persone la cui fede è stata salvata dalla metafisica. Non ritengo, in via generale, che si possa portare qualcuno alla fede discutendo, ma quando mi ero allontanato, mi sono reso conto che alcune cose non quadravano nella prospettiva atea e così credo di essere arrivato alla certezza per una sorta di via negativa. Per quanto possa essere difficile essere cristiani, credo che, intellettualmente, sarebbe molto più difficile non esserlo. Penso che vi sia un’oggettività circa il significato, il bene e il male, la bellezza e la verità, i trascendenti, che sembra sparire nella prospettiva atea. Quando incontro qualcosa di buono, di bello, di vero, ci sbatto contro, come se sbattessi contro un muro di mattoni. È reale come una sedia, una Jaguar o un elettrone. Ciò conferma l’esistenza di una dimensione metafisica nella vita, che mi indirizza a Dio. Un materialismo ateo non mi può soddisfare, perché ci sono altre cose, oltre la materia, che sono reali. Così questo è un motivo di certezza. Un altro elemento è quel senso amichevole della completezza della vita e della vita come qualcosa di sociale e dinamico, che si ritrova per esempio in Comunione e Liberazione.
È la vita di comunità della Chiesa che appare vera, non astratta. Da un lato, questa comunità si occupa di chi sta morendo, assiste gli ammalati , costruisce ospedali, si oppone alle guerre, sta dalla parte dei non nati, dall’altro, la sensazione è che si tratti di qualcosa di più che un’attività. È l’abbandonarsi a quell’Uno in nome del quale uno agisce. Ci sono quindi due dimensioni, i due lati dell’escatologia, che ci impone di costruire il regno di Dio, mentre allo stesso tempo ci dice che gli uomini non possono costruirlo. In questo io ritrovo certezza. Qualche settimana fa, ho avuto una bella conversazione con uno studente con un retroterra fortemente protestante, che mi ha detto di trovare tutto molto più complicato di quanto pensava. La Bibbia era più complicata, la fede e l’etica erano più complicate. Come impedire che questo distruggesse la certezza? Gli ho risposto che è proprio perché la Verità è così grande e Dio così infinito che sentiamo i nostri argomenti e le nostre spiegazioni incapaci di contenerli. La cosa da fare è considerare la nostra inadeguatezza nell’afferrare la Verità e la Divinità come una dimostrazione della grandezza di questa Verità, non di una sua debolezza. Questa è stata una delle svolte decisive nella mia vita.

Da www.ilsussidiario.net (23 agosto 2011)