"Dire o non dire hai un cancro. Questo è il problema"

Renato Farina

Forse è bene preparare il paziente a poco a poco. Ma soprattutto è importante condividere la sofferenza con lui

"La medicina si occupa di uomini che, nell'esperienza della malattia, cercano il senso della loro sofferenza". Esordisce così l'invito a un convegno di medici ("Medico cura te stesso", hotel Executive Milano, dal mattino di oggi a sabato). Ed è una novità culturale, anzi umana: somiglia a una buona notizia. Di solito queste convocazioni per chirurghi o dottori di base ci guardano gelide e incomprensibili negli androni di ospedali e nelle sale d'aspetto degli ambulatori. Ai nostri guai, così difficili da dire eppure semplici, dalle pareti rispondono titoli di relazioni sul numero dei neuroni nella tal malattia e sull'applicazione di certi nuovi raggi a quel tal tumore. Quel convegno ha un linguaggio semplice: tratta i medici come si dovrebbe fare coi malati. Il professor Giancarlo Cesana è l'autore del libro ("Il ministero della salute", Studio editoriale fiorentino) che è un po il manifesto di questo movimento che organizza la faccenda e si chiama "Medicina e persona" (www.medicinaepersona.org). Cesana è ordinario di Medicina del lavoro all'Università di Milano Bicocca, ma soprattutto ha coordinato un corso che si chiamava "introduzione alla medicina", la riflessione sul quale è rifluita nel libro: vi si pongono le domande più elementari su che cosa vuol dire curare, persino morire. La discussione comincia quando risponde. Lui non si nasconde: è un cristiano. Ma di uno strano tipo: non si trincera dietro il dogma o la morale, non è fondamentalista, ragiona. Il Sole 24 ore ha dedicato al volume una recensione entusiasta e stupita. Ha scritto: "Cesana ci sorprende con la sua ingenuità, libera dai vincoli delle correttezze accademiche, riproponendoci un medico non onnipotente, richiamandoci alla prudenza di fronte all'uomo di cui non è possibile catturare tutta la complessità, che esige rispetto". C'è una frase di quel libro che è il suo motto di medico dinanzi al paziente: "Guarire qualche volta, alleviare spesso, confortare sempre". Magari. Cesana, 52 anni, se ne sta nella sua casa di Carate Brianza, convalescente dell'ennesima operazione alla gamba destra, dopo un gravissimo incidente in cui ha perso la donna della sua vita, Emilia.

Il convegno di Milano dice che l'uomo malato cerca il significato della sofferenza. Non cerca piuttosto di non soffrire?
"Entrambe le cose. La malattia porta d'urgenza alla coscienza la consapevolezza che ciascuno di noi di solito ha in modo distratto; e cioè che l'uomo è portatore di un limite che a poco a poco lo ucciderà. E quindi nella malattia - non parlo di un raffreddore, naturalmente - uno vuol guarire, e insieme desidera rendersi conto di cosa significhi questa condizione di decadenza, la quale anche se guarisce si ripeterà".


Eppure il messaggio che lancia la medicina è adesso un altro: vinceremo le malattie, ce ne andremo senza dolore.
"Non ci credo. Ma se anche la medicina vincerà la malattia, ci saranno gli incidenti, le guerre. Il problema della sofferenza e della morte incomberà sempre. E' tornato il mito dell'onnipotenza della scienza, del medico-stregone che sistemerà tutto. Falso".


E queste cose le dice in università agli studenti di medicina?
"Le ho scritte, le dico se me lo chiedono. Nell'idea fondativa il corso che ho guidato doveva avere per modello situazioni di matematica o di filosofia. Ma è inevitabile, in medicina, una componente molto personale: ho rinunciato. La medicina ha una componente umanistica troppo forte, inoltre è anche attività pratica, applicativa".


Come, come... Non è una scienza la medicina?
"La medicina è anche un'arte. L'ha già scritto qualcuno: diversamente dagli altri scienziati, il medico non può accontentarsi della vittoria del vero. Il suo scopo infatti è utilitaristico: alleviare le sofferenze dell'anima e del corpo".


Si spieghi.
"A un medico non basta dire: signora, lei ha il cancro. Magari un medico non deve dirlo".


Non dirlo?
"Talvolta. O dirlo a poco a poco. Non so. Dipende dal rapporto con il paziente".


Esiste ancora il rapporto tra medico e paziente? Ti mandano a fare gli esami, ti infilano in un tubo.
"Esisterà sempre. Ci sarà sempre un paziente che chiede al medico, anche con la faccia, senza parlare, un aiuto a uscire dalla sofferenza e comunque a viverla. E finché c'è questa domanda, nessuna degenerazione del sistema eliminerà quel rapporto".


Come si fa ad aiutare uno che soffre, a parte le pastiglie?
"Bisogna provare a condividere la condizione di chi ha davanti, percepire che il suo destino è anche il tuo. Non è far delle prediche, ma accogliere l'altro, prenderlo in carico".


Com'è il medico italiano?
"Diciamo che siamo tanti, noi medici italiani. Dopo Cuba, abbiamo la più alta percentuale di laureati nella materia: siamo fra i 5 e i 6 per mille abitanti".


Fanno circa 300mila. Che medicina hanno imparato e praticano?
"La medicina italiana subisce molto culturalmente l'influenza anglosassone. Domina un empirismo (che tende a ridurre l'uomo al dato biologico) in salsa italica. Con una verbosità un po' confusa, legata appunto a questo affollamento di medici, alla difficoltà di svolgere il mestiere in questa situazione di burocrazia, con stipendi pubblici relativamente bassi. Sia chiaro, questo empirismo anglosassone ha una sua validità. Del resto la preoccupazione per le tematiche cosiddette umanistiche negli Stati Uniti è maggiore che da noi. Ci sono fior di riviste dedicate a questo. La cultura medica italiana è invece depressa».


E voi, ci provate con questo convegno a tirarla su.
«Non avendolo organizzato io, posso dirlo: mi sembra un tentativo notevole di affrontare l'aspetto umanistico, culturale dell'agire medico».


Il titolo: medico cura te stesso. È una frase del Vangelo. Traduca...
«Primo: il medico si ammala anche lui. E quindi in ogni malato il medico vede il suo destino. La sua fragilità umana. In secondo luogo, nella sua azione deve darsi una ragione come tutti. Deve prendere cura di se stesso. La medicina da quando è nata si è sempre occupata della vita e della morte, del senso dell'esistenza, di Dio. È inevitabile. Ha a che fare con le questioni decisive».


Soprattutto la morte. Si insiste molto sulla dignità del morire.
«La morte è un aspetto della vita. Fa parte della vita umana, la morte. E quindi la dignità del morire fa parte della dignità del vivere. La morte è quel passaggio in cui la vita si scopre nella sua estrema fragilità. Si scopre come non propria: la vita non ce l'hai tu. Questa presa di coscienza è inevitabile. Non si può più bypassare questo».


Indro Montanelli dice: non mi fa paura la morte ma il morire.
«Morire è il passaggio. È nel passaggio che la questione di chi sia la vita diventa drammatica. Quindi, la soluzione è: addormentiamoci prima e lasciamo perdere. Ci sembra così essere i padroni della vita, ma in realtà la buttiamo via».


Eppure ci sono esagerazioni nelle cure.
«Quel passaggio decisivo è un territorio delicato: non deve essere svilito da inutili e ostinati tentativi di lotta, espressioni di un tecnicismo bolso e un po' cinico di medici guerrieri, condotto sulla pelle degli altri».


La cultura cattolica, che benedice il dolore, è ritenuta colpevole nella scarsa sensibilità dei medici alla questione del modo della morte.
«Mi sembrano tutte palle. La morfina ad esempio deprime i centri del respiro. Ecco una delle ragioni per cui non si dava: se ti do la morfina ti ammazzo. Col tipo di farmacologia cui siamo arrivati oggi esistono alternative. Si può fare moltissimo».


Ma il dolore morale è senza medicine.
«Anche lì c'è il farmaco. Basta bere. Bere per dimenticare, no?».


Di recente, citando don Luigi Giussani, ha sostenuto che, da Abramo, per l'ebreo e poi per il cristiano la differenza è tutta nella coscienza: il passaggio dal non-io all'io. Che vuol dire?
«Per tutti esiste l'esigenza di identificare questo io, questa unicità della nostra persona. L'esperienza giudaico-cristiana non toglie il dolore più atroce e nemmeno la fatica del vivere: potrebbe essere anche di più questa pena. Ciò che è dato di nuovo è la coscienza di sé, l'unicità della propria persona. Una persona chiamata ad un compito. Chi non ha questa visione della vita, dica la sua. Spieghi dove situa questa unicità della persona e i fattori della propria libertà. In che cosa consistono i principi della vita cosiddetta dignitosa di ciascun uomo».