Filosofia Senza destino, cos'è dunque la vita?
TemaCostantino, Maddalena, Ponzio e Savini. Pubblico in piedi per quattro filosofi
alle prese col tema del Meeting. Rileggendo Aristotele, Epicureo, Kant, Spinoza,
Schopenhauer e Agostino
Se il fine della vita è la felicità, i meno attrezzati a parlarne
sono i “buoni”. Costantino Esposito non lo ha detto chiaramente,
ma lo diciamo noi: hanno un’idea troppo ristretta (vogliamo dirla tutta?
Un’idea meschina) del desiderio, e dell’io. Due filosofi americani
come John Dewey e Richard Rorty sono un ottimo esempio del pensiero philosophically
correct di oggi: per loro la felicità è un bene “comunitario”,
che «va costruito secondo i canoni della cultura dominante»; consiste
più o meno nel sapersi comportare in società e, soprattutto, nel
non farsi più certe pericolose domande.
Costantino Esposito, Giovanni Maddalena, Paolo Ponzio e Massimiliano Savini hanno
riproposto anche quest’anno al Meeting il loro approccio “multimediale” alla
filosofia, passandosi la parola con ritmo da instant-news: in sala centinaia
di persone attentissime per un’ora e mezza, e una novantina in piedi nei
corridoi. Persino la filosofia, al Meeting, “funziona”.
Le toccava il compito di andare al nocciolo della questione sollevata dal titolo. È il
suo mestiere, del resto. Esposito & Co hanno messo in campo quattro squadre,
piuttosto “trasversali” rispetto agli schieramenti abituali: i “saggi”,
gli “intelligenti”, i “buoni”, gli “audaci”.
La prima è allenata - naturalmente - da Aristotele, l’uomo di punta è Epicuro,
ma quello che tira le fila è Kant: ciò che li unisce è l’idea
che «le leve della felicità sono in mano nostra».
A “ribaltare” Epicuro ci ha pensato Giovanni Maddalena: non è il
filosofo del piacere - dice -, anzi, quello della repressione: per lui «il
desiderio è un potenziale nemico della felicità»; ergo, il
saggio deve coltivare l’impassibilità, allontanare da sé ansie
e sofferenze. Ma il capolavoro (del disastro) porta la firma di Kant, che anche
quest’anno Esposito contesta a fondo, pur con tutto il rispetto. Per il
filosofo di Königsberg la grandezza dell’uomo sta tutta nel suo dominio
della sfera etica; mentre la felicità, ahimè, «non c’entra
nulla con la moralità». Siccome però ripugna alla ragione
che l’uomo virtuoso sia infelice - oltretutto mentre gli immorali se la
spassano -, dovremo giocoforza pensare a una «vita ulteriore» in
cui le rette parallele finalmente convergano. È la «religione nei
limiti (sic!) della pura ragione».
Poi ci sono gli “intelligenti”. Molto intelligenti, tanto da essere
i più pericolosi. Due nomi: l’ebreo scomunicato Baruch Spinoza,
e il padre di tutte le filosofie negative del 900, Arthur Schopenhauer. Vedono
tutto benissimo, tranne una cosa: la libertà, intesa come forza positiva.
Spinoza è stato spiegato, ma non confutato: la sua posizione super-intellettuale
- ha ammesso Esposito - «è una delle più affascinanti dell’intera
storia della filosofia». Schopenhauer, come lui, vede un mondo dominato
dalla necessità, in negativo però: ogni desiderio è illusione, «una
volontà cieca e insoddisfatta» è la nota continua di una
vita dominata dal dolore. Se dunque essere felici è impossibile, la grandezza
dell’uomo sta nel non provarci neppure: «Il mezzo più sicuro
per non diventare molto infelici consiste nel non chiedere di diventare molto
felici, e ridurre le proprie pretese a una misura assai limitata».
A noi, che intelligenti non siamo, buoni e saggi men che meno, viene voglia di
salire sulla barca degli “audaci”. La guida Agostino, che fa saltare
il presupposto di tutto il discorso di cui sopra: la felicità - dice -
non è là in fondo, meta ultima dell’agire: se noi la cerchiamo, è perché già sappiamo
cos’è. Experti sumus: l’abbiamo sperimentata. Provi, chiunque,
a negarlo. La felicità cioè è un “dato”, scientifico,
anche se parziale, non una chimera; e tocca l’uomo alla radice: il desiderio
di essa non si può evacuare con un paio di sillogismi.
Una ricostruzione di parte, naturalmente. Come la felicità del resto.
Con buona pace degli americani e dei russi - educati da Dewey e da Marx -, non
esistono felicità collettive: questione di “ii”, casomai -
come direbbe Giussani. Eraclito, l’oscuro, era stato molto chiaro: «Chi
non spera l’insperabile non lo scoprirà».