Guardare con simpatia l'umano

Inserto
Julián Carrón

Appunti dalle sintesi di Julián Carrón al Centro del Clu e all’Assemblea responsabili di Comunione e Liberazione. Milano, 6 e 9 febbraio 2007

Vi propongo di rivisitare insieme la Scuola di comunità (L. Giussani, Tracce d’esperienza cristiana, in Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006). Questo ci consentirà di fare una verifica di come la stiamo facendo, tenendo conto di quello che don Giussani dice sulla Scuola di comunità - essa «è lo strumento principale della vita nuova, del modo nuovo di perseguire lo scopo dell’io nuovo» («Scuola e metodo», in Tracce-Litterae Communionis, n. 1, gennaio 2007, p. 4) e del metodo che questa Scuola di comunità ci impone. Preparando l’Assemblea responsabili, ho riletto di nuovo il testo di Scuola di comunità che lì era a tema, e la rilettura mi ha corretto ancora una volta su come io la facevo. Dico questo come esito del lavoro mio personale. Il farla è, infatti, un paragone costante che corregge, perché siamo davanti a una presenza che racconta un’esperienza umana. Costantemente uno può esporsi a un paragone con questa presenza che si documenta nelle pagine della Scuola di comunità.
All’inizio del secondo capitolo («L’incontro con Cristo»), don Giussani dice: «L’incontro storico con quest’uomo costituisce l’incontro col punto di vista risolutivo e chiarificatore dell’esperienza umana» (p. 91). Cristo risolve, cioè risponde all’esigenza del cuore, all’esigenza della mia umanità, e perciò chiarifica. Poiché è risposta all’esigenza del mio cuore, chiarifica veramente quello che io avevo confusamente come desiderio. È come quando tu incontri la persona amata e dici: «Adesso capisco che cosa aspettavo». Prima era come una cosa senza volto: aspettavo qualcuno. Quando incontro, capisco, tutto si chiarifica. Cristo risolve e chiarifica perché corrisponde. Cristo è «l’unico genio che ha colto bene tutti questi fattori umani, che li ha fatti emergere, che ne ha rivelato il senso definitivo» (p. 91). Con questo sguardo, con questo punto di partenza (che appare nel secondo capitolo, in cui si parla dell’avvenimento cristiano), torniamo all’inizio della Scuola di comunità, dove don Giussani domanda: perché i primi Lo hanno sentito come il punto chiarificatore e risolutivo dell’esperienza umana? Perché Lo hanno seguito e, seguendolo, hanno visto con più chiarezza che cosa erano loro e che cosa era Lui? Perché «Cristo era l’unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi» (p. 83).
I loro bisogni inconsapevoli e confusi acquistano chiarezza nell’incontro. Che cos’è che diventa chiaro, dunque? La loro umanità si scopre «tutto mancante» (p. 84). Questo è quello che mi ha incominciato a illuminare. Qui possiamo vedere, infatti, se stiamo facendo la Scuola di comunità: il problema non è se uno sa ripetere tutto, ma se, da quando l’abbiamo incominciata, si è mai sorpreso «sentendosi tutto mancante». Il test è questo, non se si ripetono tutte le parole. Lo dico prima di tutto per me. In una certa occasione, durante una Scuola di comunità, per una domanda emersa, ho cercato di spiegare quello che dice don Giussani, nella Pagina Uno di Tracce di febbraio («La familiarità con Cristo»), sulla differenza tra sapere e conoscere. Ho risposto facendo un esempio personale. Io sapevo, come tanti di voi sanno, quello che abbiamo letto nel capitolo X de Il senso religioso: «Io sono Tu che mi fai» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 146). Ma come è diverso “sapere” questo dal dire “io” con la consapevolezza contenuta in quelle parole! Se qualcuno ci fa una domanda al riguardo, possiamo anche ripetere: «Io sono Tu che mi fai», e poi continuare a dire “io” come prima. Io sapevo che cosa voleva dire «Io sono Tu che mi fai», ma non dicevo “io” con quella consapevolezza. Che cosa mi ha consentito di incominciare a coincidere con quelle parole? Il fatto di aver letto per anni quel paragrafo fin quando è diventato mio, fin quando ho incominciato a sorprendermi a dire “io” con quella consapevolezza. Ecco, la conoscenza di cui parla don Giussani nel testo di febbraio non è altro che questa familiarità. Il concetto biblico di conoscenza non equivale a “sapere”, non è un sapere soltanto, ma è una familiarità con il dato, per cui questo dato diventa mio, espressione mia. Tutti noi sappiamo molto bene la differenza che c’è tra il sapere la definizione («Io sono Tu che mi fai») e il dire “io” coincidendo con quelle parole.
Non possiamo dire di conoscere la Scuola di comunità, senza che appaia, che a un certo momento spunti, questa familiarità con quello che diciamo. Ho incominciato così a rileggere la Scuola di comunità chiedendomi: ma questo, io lo so o lo conosco? Perché è qui che incomincia il lavoro. Non basta che io incontri Cristo, perché altrimenti don Giussani si sarebbe fermato a questo punto. Mentre, subito dopo aver detto che «Cristo era l’unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio», afferma: «Per incontrare Cristo, dobbiamo impostare seriamente il nostro problema umano» (p. 84). È come se in questo momento incominciasse tutto. Proprio perché Cristo ha preso sul serio la mia umanità, io posso - adesso sì, perché non ho più paura di essa - guardarla in faccia, posso veramente incominciare a impostare il mio problema umano. Non è perché faccio il filosofo, né per una introspezione che mi si impone il problema umano, ma è perché Cristo è il punto di vista risolutivo, perché Lui ha fatto emergere con chiarezza quel bisogno che era confuso. Adesso posso incominciare a impostare in modo compiuto il problema umano. La questione non si esaurisce, l’incontro non chiude la vicenda umana. Al contrario, è con esso che incomincia veramente l’avventura. Se non è così, se vivo l’incontro senza connessione con il problema umano, alla fine rimane un’ideologia, un sapere che non entra nel merito della vicenda umana; perciò non mi serve, e nel tempo Cristo non mi interessa più.
Che cosa vuol dire impostare il problema umano? La prima cosa è «guardare con simpatia l’umano che è in noi, prendere sul serio quello che proviamo, tutto, sorprenderne tutti gli aspetti, cercarne tutto il significato» (p. 84). Per tre volte in due righe don Giussani sottolinea la parola “tutto”. Io ho incominciato a guardare queste affermazioni come altrettanti test. Perciò capisco se faccio la Scuola di comunità, non se leggo e ripeto queste cose, ma se mi sorprendo a guardare con simpatia l’umano che è in me. Vi domando: da quando avete incominciato a fare la Scuola di comunità vi siete sorpresi a guardare con simpatia l’umano? Non soltanto quindi a ripetere frasi, ma a guardare con simpatia l’umano che è in voi? Don Giussani è così geniale che nel percorso introduce i test da cui noi possiamo verificare se stiamo facendo il lavoro di Scuola di comunità, che non è possibile ricondurre soltanto a un discorso. Essa è un’esperienza e non soltanto il dibattere su un discorso. Qui si ha il test. Che io cominci a guardare con simpatia la mia umanità: è questo che Cristo rende possibile. Altrimenti, io non la guardo, semplicemente la censuro.
L’incontro con Cristo non mette a tacere l’umano, dunque, ma è proprio ciò che rende possibile guardare anche il buio del mio cuore, guardare con simpatia tutto l’umano che c’è in me. A partire di qui, incomincio a «osservare l’esperienza con occhio chiaro» e a «accettare l’umano in tutto quello che esige» (p. 85), e questo mi mette in un atteggiamento di attesa. Ci siamo sorpresi in questo atteggiamento? Chi ha incominciato a guardare con simpatia la propria umanità? Chi ha notato qualche novità nel modo di guardare se stesso? Occorre incominciare a interpretare le affermazioni della Scuola di comunità come segni, invece che come parti di un discorso; segni che indicano se noi stiamo facendo l’esperienza di cui si parla, se il nostro è semplicemente un sapere oppure una familiarità.
Rileggiamo brevissimamente questi segni. Primo segno: l’impotenza. «Il senso di impotenza accompagna ogni seria esperienza di umanità» (p. 85). Se uno incomincia a guardare con simpatia e a impegnarsi seriamente con la propria umanità, scopre questa impotenza: ogni seria esperienza di umanità la fa emergere. Abbiamo sentito qualche volta in due mesi di Scuola di comunità questa impotenza? Se il segno che noi abbiamo una seria esperienza di umanità è che sentiamo questa impotenza, se non la avvertiamo vuol dire che siamo restati sulla superficie. Ciò significa che possiamo agitarci in tante cose, partecipare a tante attività, ma non ci “stiamo”. Che noi sentiamo realmente questa impotenza, si vede dal fatto che siamo consapevoli che il nostro problema fondamentale non può trovare risposta in noi o negli altri. Quante volte pensiamo: «È l’unione che fa la forza, se stiamo insieme vinciamo la nostra impotenza!». Questa immagine di compagnia porta a galla che uno non ha capito di che cosa stiamo parlando. Allora è normale che venga deluso dalla compagnia. Ma se questo succede rispetto alla compagnia, succederà poi anche rispetto al matrimonio, ai rapporti. Come se ci fosse qualcuno che potesse risolvere la nostra impotenza! Io incomincio a capire che cosa significa l’impotenza, se mi rendo conto che la mia esigenza non può trovare risposta né in me né negli altri.
«Il senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio impegno con la propria umanità» (p. 85). Mi hanno raccontato di una persona che ha incominciato a fare la Scuola di comunità da qualche mese e che, dopo aver letto queste pagine, è intervenuta dicendo: «Come è difficile dire a se stessi queste cose, e ancor più agli altri: sembrano un limite, una fregatura, perché uno deve essere sempre all’altezza!». E ha aggiunto: «Io adesso non mi sento più sola perché sono davanti a una proposta». Non conosce quasi nessuno, perciò non può ridurre la compagnia a qualcosa di sentimentale. Proprio perché il problema della solitudine è l’impotenza, quello che risolve la sua impotenza è il fatto di essere davanti a una proposta. Capite la differenza dal modo con cui noi normalmente concepiamo la compagnia e che cosa risolve la solitudine? Noi riduciamo la compagnia a una questione sentimentale.
Se facciamo bene la Scuola di comunità, essa dunque ci corregge - nel senso profondo del termine - in tante cose e ci risparmia tanti guai. Se invece non capiamo queste cose, continuiamo ad agitarci, ma, proprio perché non capiamo, incominciamo a percorrere il cammino sbagliato.

Secondo segno: la comunità. «Uno che scopra veramente e viva l’esperienza dell’impotenza e della solitudine, non sta solo» (p. 86). Per noi tante volte è il contrario, come atteggiamento. Quando ci sfoghiamo con l’altro, quando il nostro umano sale dalle viscere, quello che ci viene da dire è esattamente il contrario: «Sono da solo davanti a questo o a quello». Ma se «uno che scopre veramente e vive l’esperienza dell’impotenza e della solitudine non sta solo». C’è allora qualcosa che occorre cambiare nel nostro universo ciellino. E qual è il segno di tale cambiamento? Che io mi sento vicino agli altri senza calcolo e senza pretese. Quante volte in questo tempo vi siete sentiti vicini agli altri «senza calcolo e dittatura e, nello stesso tempo, senza passività» (p. 86)? «Senza calcolo» è il contrario del menefreghismo, cioè di quell’atteggiamento per cui, per non cadere nella pretesa e nel calcolo, me ne frego, divento passivo. No! Senza calcolo, né passività. Vi prego di guardare quante volte don Giussani usa la parola “impegno”. Prima: «Il senso della solitudine nasce nel cuore di ogni serio impegno con la propria umanità» (p. 85). Poi: «Un uomo si può dire impegnato seriamente con le sue esperienze umane solo quando sente questa comunità con gli uomini» (p. 86); non, cioè, quando fa qualcosa per sentirsi vicino a tizio o a caio, quando produce come sforzo questo sentirsi vicino, ma quando si sorprende vicino all’altro perché ha esperienza della sua umanità. «Quanto più mi impegno con la mia umanità...»: non si dice che dobbiamo “fare” la comunità. No! Dobbiamo vivere, impegnarci con la nostra umanità, perché è questo che ci fa sentire vicino agli altri senza calcolo e dittatura, che ci fa sentire questa “comunità” con gli uomini. Tante volte, siccome non capiamo questo, il nostro stare insieme è arrogante e presuntuoso: non sentiamo il bisogno degli altri, non sentiamo gli altri come parte di noi, come parte del nostro umano, ma come gente per gestire non so che cosa.

Terzo segno: l’autorità. Autorità non sono, qui, coloro che hanno il ruolo, ma persone che di fatto «vivono la nostra esperienza più intensamente, più impegnati» (p. 88). Per la terza volta, ricorre il termine «impegno». L’uomo che ha scritto queste pagine era un uomo così: l’incontro con Cristo non l’aveva svuotato, rattrappito, ma aveva fatto emergere con chiarezza tutti i fattori della sua umanità, fino a questa intensità di impegno. Tanti di voi non l’hanno conosciuto, ma chi ha scritto queste pagine era così, e non avrebbe potuto scriverle se non ne avesse fatto esperienza. In esse possiamo vedere la testimonianza di una umanità più intensa, quella che viene fuori dall’incontro. Non è che siccome aveva incontrato Cristo, allora era tutto finito. No! Don Giussani era un uomo che proprio l’incontro con Cristo aveva fatto impegnare con la propria umanità e che per questo ha potuto guardare con simpatia l’umano: Cristo non è stato l’alibi per non fare niente. Sarebbe come se uno mi dicesse: «Ho incontrato la morosa e non mi impegno». Allora, dico io, non è vero che l’hai incontrata, smetti di dire bugie: risulta evidente, non tanto che non sei “bravo”, ma che non l’hai incontrata. Uno che l’ha incontrata, si impegna! Se uno non s’impegna, o non l’ha incontrata o è un meschino. Non c’è alternativa: o non l’hai incontrata o sei un immorale, resisti, perché l’incontro non ti lascia indifferente.
«L’autorità sorge come ricchezza di esperienza che si impone agli altri, genera novità e stupore» (p. 88). Che autorità hai riconosciuto tu, in questi tempi? Più vivi la tua umanità, più scopri l’autorità. Autorità è, infatti, chi è più impegnato col proprio problema umano, e non c’è autorità che non sia questa. Come avete esercitato la vostra responsabilità? Cercando di impegnarvi con la vostra umanità, cercando di vivere in prima persona la vostra esperienza umana con tutta la sua potenza, o sostituendo la mancanza di questa umanità con l’autoritarismo del ruolo, mettendo tutta la vostra autorità nel “comandare” qualcosa? Sarà più facile, ma è inutile. Tutto questo ci giudica. Ma non mi importa qui lo sbaglio, non è questione di moralismo: mi interessa che, se non viviamo così, nel tempo Cristo non ci interesserà più e saremo soli come cani.
L’autorità non è chi mi risparmia qualcosa, ma colui che vive più impegnato con la propria esperienza umana, sa che cos’è vivere come uomo e non cede alla tentazione di risparmiarmelo. Anzi, noi siamo qui per l’incontro fatto, perché c’è qualcuno che ci ha ridestato il dramma della nostra vita. La maggiore autorità è colui che, proprio perché testimonia che cos’è essere uomo, ci ridesta di più la domanda, ci ridesta di più il cuore. Autorità non è colui che appiattisce tutto in modo tale che tutto entri nell’organizzazione. Se concepiamo il movimento come “organizzazione”, nel tempo non interesserà più a nessuno, neanche a noi, perché l’io, proprio l’io come dato, è esigenza di totalità: o trova qualcosa che risponde e ridesta questa esigenza di totalità, o non potrà essere interessato e attratto. Il cuore è così oggettivo che, se non troviamo ciò che gli corrisponde, niente ci prende e ci attira abbastanza. Il moralismo non basta.
Don Giussani nel 1982, ai primi Esercizi della Fraternità (cfr. «La familiarità con Cristo», in Tracce-Litterae Communionis, n. 2, febbraio 2007), colpito per il fatto di vedere lì i suoi primi scolari, cita una frase di Giovanni Paolo II di per sé impressionante: «Non ci sarà fedeltà (…) se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda, per la quale solo Dio è la risposta». Il problema è tutto qui. Non dice: «Non ci sarà fedeltà, se non sarete bravi, se non sarete coerenti». No! «Non ci sarà fedeltà se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda, per la quale solo Dio è la risposta». La fedeltà è legata a una domanda per la quale solo Cristo è la risposta, non cioè al problema dell’etica, ma al problema dell’antropologia, del cuore. Per questo, o noi stiamo sulla vera questione del vivere, o prima o poi neanche noi saremo fedeli. In una fedeltà poggiata soltanto sulla nostra capacità di coerenza non possiamo avere alcuna speranza.

Quarto segno: la preghiera. Le nostre esperienze prese veramente sul serio, inesorabilmente esigono qualcosa d’altro, cioè hanno un’autentica dimensione religiosa, non appiccicata, ma che sorge dall’esperienza stessa. Perciò don Giussani dice: «Prega chi è più realista», prega chi considera più seriamente la sua esperienza umana. Vuoi sapere come prendi la tua esperienza umana? Guarda se hai pregato e come hai pregato, se hai avuto bisogno di gridare, di domandare. Come? Non come parte del programma ciellino, ma come qualcosa che sorge dalle viscere del tuo bisogno. Quante volte la nostra preghiera è scaturita dalla nostra umanità esigente, presa sul serio, e quante, invece, da un’abitudine o da un rituale (così che, quando non c’è il rituale, non si fa; per esempio, quando ci sono gli esami o quando arrivano le vacanze, siccome non c’è il rituale, non si fa, la nostra umanità è in stand by)?

Adesso che incominciamo a entrare nel nuovo capitolo («L’incontro con Cristo»), occorre riprendere l’Introduzione di All’origine della pretesa cristiana (Rizzoli, Milano 2001). Non è che, dopo aver scoperto l’umano, arriviamo a Cristo, voltiamo pagina, abbiamo già superato la premessa, e incominciamo a parlare di Cristo. No! Don Giussani non parla dell’umano perché “deve” farlo (per cui, prima si deve parlare del problema umano e poi si deve parlare di Cristo), ma perché per scoprire chi è Cristo occorre prendere sul serio l’umano. Cristo si propone infatti come risposta all’umano. Se vuoi andare avanti nella ricerca di che cos’è Cristo, allora non puoi chiudere con la vicenda dell’umano e incominciare a “parlare” di Cristo, perché Cristo viene incontro proprio al tuo problema umano. Quanto più uno sente ed è impegnato con la propria umanità, tanto più sarà in grado di cogliere Cristo che gli viene incontro ora. «Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io”, e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso, mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza, anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (p. 3).
Noi incominciamo perciò questa nuova parte della Scuola di comunità senza lasciare indietro quello che abbiamo fatto. È un’altra questione decisiva. Spesso, per noi il senso religioso è come una premessa, tanto è vero che molti dicono: «Se siamo già cristiani, perché ritorniamo al problema umano, perché ritorniamo al senso religioso?». Ma è proprio Cristo che ridesta l’umano: non lo appiattisce, non lo rattrappisce, lo ridesta, per continuare a rispondere. Soltanto chi prende sul serio questa sua umanità potrà continuare la grande avventura del riconoscimento di Cristo. Altrimenti penseremo di sapere già, quando in realtà non sappiamo nulla. Proprio perché tu continui a desiderare di vedere la persona amata, ti può sorprendere il vederla ancora. Non è che questo chiuda la vicenda, anzi, uno desidera che non si chiuda mai; il giorno che si chiude è finita, è la tomba del rapporto, come è la tomba della fede: uno potrà continuare a conservare ancora qualche rituale, ma essa non resterà interessante per la vita. Questo è il problema della fede: Cristo continuerà a interessare, se rimane la domanda. «Ci sarà fedeltà se ci sarà una domanda, per la quale Cristo è l’unica risposta».
Affrontando il nuovo capitolo, cominciamo a leggere i passaggi del Vangelo lì richiamati, a leggere tutto quanto è successo, e a riconoscere quello che accade adesso tra di noi: è l’unica possibilità di continuare questa avventura della conoscenza di Cristo. Occorrerà, allo stesso tempo, ricuperare le due questioni di metodo indicate da don Giussani in All’origine della pretesa cristiana: per i discepoli quell’incontro è diventato un cammino della certezza, perché la “convivenza” nel tempo con Gesù e l’«attenzione ai segni» consentirono loro di arrivare sempre di più alla domanda che la convivenza con Lui faceva scattare: «Chi è costui?», e che li spingeva a cercare una risposta. È questa l’avventura per poter continuare quel cammino della certezza che abbiamo intravisto agli Esercizi (cfr. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?, supplemento a Tracce-Litterae Communionis, n. 1, gennaio 2007). Per fare questo percorso, non lasciamo cadere nel dimenticatoio gli Esercizi. Lavoriamo sulla Scuola di comunità, dunque, con quello che ci siamo detti agli Esercizi e con tutta la ricchezza di quello che stiamo vivendo.