Il disìo umano. Motore verso Dio
Divina CommediaL’esperienza dantesca raccontata dalla professoressa Chiavacci, docente
universitaria e membro onorario della Dante Society of America. «L’esperienza
suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo del cuore»
Se la letteratura occidentale, greca e giudaica, aveva focalizzato la sua attenzione
sulla necessità di una meta per definire il destino dell’uomo -
tanto che si può dire che proprio l’esistenza di una meta definisce
il senso della parola destino - la Divina Commedia, punto culminante del cristianesimo
d’Occidente, compie un passo decisivo oltre questa prospettiva, mostrando,
lungo la via segnata da Agostino, come il desiderio, o meglio il disìo,
o disire, gran motore dell’agire umano, non si acquieti in nessuna delle
esperienze a noi offerte dal mondo, ma ingiunga di passare l’orizzonte.
Fino a quel punto in cui la persona, l’io incontra faccia a faccia, il
punto nel quale il desiderio si scioglie. È l’esperienza dantesca
così come ci è stata raccontata in una mirabile lezione dalla professoressa
Annamaria Chiavacci Leonardi, tra i maggiori studiosi danteschi viventi nonché grande
amica del Meeting, di cui è stata ospite più volte.
Il cammino del desiderio
«Questo disire è “moto spiritale”, moto spirituale,
tuttavia è già un
movimento di per sé. Il desiderio è movimento. Ed è il movimento
di cui vive l’Universo per opera di quel Dio in cui Dante crede».
Tutto l’universo è improntato così da Dio, che «tutto
il ciel move, non moto, con amore e con disìo» (Par XXIV, 131-132). «Ma
nelle creature dotate, come dice Dante, “di intelletto e d’amore” c’è una
cosa diversa: diversa è la meta, diversa la coscienza che tali creature
ne hanno. Diversa la libertà di perseguirla o meno. Quella libertà che
fa la grandezza della natura umana. Ora, questo desiderio, o disìo, è una
forza che dominò tutta la vita di Dante. È lui, infatti, il protagonista
di quel cammino, del cammino del desiderio, che nel poema si compie nel modo
che sarà detto negli ultimi versi, nell’introduzione dell’ultimo
Canto: «E io ch’al fine di tutti i disii/ appropinquava, sì com’io
dovea,/ l’ardor del desiderio in me finii» (Par XXXIII, 46-48)».
Verso la fine della sua lezione la signora Chiavacci Leonardi indica con chiarezza
il punto d’arrivo del poema, che non è - come scrisse un eminente
studioso, l’americano Singleton - Beatrice (anche se la bellezza come esperienza
personale è il segno da qui, da ora, da subito, della corrispondenza tra
il desiderio e un destino certo), bensì una sorta di solitudine in cui
tutto si condensa.
Il cuore parla al cuore
«L’esperienza suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo
del cuore. Cor ad cor loquitur, è la bellissima insegna scelta dal cardinale
Newman: io non so se l’abbia inventata lui o l’abbia trovata da qualche
parte, perché non sono riuscita a trovare la fonte, comunque me la ricordo
spesso. Cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore. L’incontro è sempre
fra due persone, il rapporto con Dio passa da persona a persona. Ora Dante, dopo
la grande preghiera elevata da Bernardo a Maria, si ritrova solo nell’ultimo
canto come solo era nella selva all’inizio del poema. Sparisce la rosa
che si contemplava prima, non si vede più niente; è il momento
in cui tocca il fine di tutti i disii. E porta al culmine quell’ardor di
desiderio che ha consumato la sua vita».