"Il Meeting fa saltare tutti gli schemi"

Luca Doninelli

"Tutto quello che vi ho detto oggi, l’ho detto perché me l’ha insegnato un altro. La vita mi ha costretto a impararlo". Giancarlo Cesana è sopratutto questo, e la parola "costretto" lo descrive bene. C’è chi concepisce la libertà come una fuga dalle costrizioni e chi la concepisce come l’accettazione di una sfida. Spesso - anzi, il più deIle volte - sono proprio le circostanze più costrittive a lanciare questa sfida. Ma per accettare la sfida l‘uomo dev’essere pronto, armato. Lo diceva sempre Giovanni Testori: il destino nel senso cristiano della parola indica una condizione non soltanto imposta ma anche accettata dalla libertà umana.
Il nome di Giancarlo - docente universitario di medicina del lavoro, ma soprattutto responsabile di Cl - è da tempo un nome pubblico. Le sue opinioni sulla vita politica, su Berlusconi, sul G8, sulla scuola e sulla sanità sono ben note. Dopo la chiusura del XXII Meeting riminese per l’Amicizia tra i popoli, ho però voluto fare il punto con lui, chiedergli in cosa consista la sfida culturale di questa manifestazione, quale messaggio offra, attraverso ma anche al di là dei singoli incontri politici, economici o culturali, alle intelligenze del nostro Paese.
Il lettore non si aspetti un ritratto del personaggio, che so, la sua psicologia, la sua vita privata, eccetera. Qui, il personaggio sta tutto - come certe figure medievali scolpite nelle cattedrali, da Modena a Chartres - nella tensione a rispondere personalmente (e quindi oggettivamente, perché ciò che è realmente personale è sempre per tutti), a una consegna ricevuta.
Inoltre, Giancarlo è un medico e parla come un medico, e a me il suo modo di parlare piace, tanto che qualche volta mi capita di imitarlo nei miei romanzi.
Che tipo di opera è il Meeting? In che modo, anno dopo anno, il Meeting chiarisce il suo scopo a chi lo fa?
"Io credo che il Meeting di Rimini sia animato innanzitutto da una certa, particolare esperienza. Voglio dire che l’incontro con il fatto cristiano, la fede cristiana, sono fatti che producono un’esperienza umana più vera, tesa a confrontarsi con tutti gli aspetti della realtà. Il Meeting è il tentativo di esemplificare questa esperienza umana, chiamando a confronto con essa tutti quelli che lo vogliono. Se, anno dopo anno, il Meeting cresce, è perché dietro le sue diverse espressioni c’è questa verità, una verità vissuta, e perciò non contraddicibile".
In che senso "non contraddicibile"?
"Nel senso che non si identifica in un discorso ma in un’esperienza, in una realtà di fatto".
Chi promuove il Meeting sa fin dall’inizio quello che emergerà, il messaggio che ne uscirà?
"Direi proprio di no. Come tutti possono vedere, il Meeting è una realtà fatta di molti imprevisti. Come tutta la vita".
Quale parola in più, quale acquisizione aggiunge il Meeting di quest’anno rispetto alle edizioni passate?
"Dal punto di vista della coscienza, io credo che il Meeting di quest’anno sia la conferma che all’attesa della nostra vita, alla grande domanda della nostra vita, di cui la vita è fatta, non possono rispondere adeguatamente né la scienza né la filosofia. All’attesa della nostra vita risponde, sempre di più, e sempre più consapevolmente, Gesù Cristo, ossia questo evento che è l’incontro cristiano: un incontro capace di generare un’umanità nuova. La partecipazione a questo incontro, il Meeting mi pare insomma costituisca un’esperienza umana capace di suggerire alla vita una possibilità di maggior consistenza".
Giovedì scorso, cercando di definire il carattere di questo evento, tu hai iniziato parlando di una ragazza di vent’anni che puliva il pavimento. Cosa ti ha colpito di questa immagine?
"Vedendo una ragazza di vent’anni che viene qui per pulire il pavimento, e lo fa con cura, non solo gratuitamente, ma pagando di tasca propria la permanenza qui, be’, è una cosa che fa una certa impressione. Una persona che fa così deve avere una motivazione ben forte. Dico meglio: deve avere una domanda molto forte nella vita".
Il Meeting è una grande opera di laici. A me pare, però che iI clericalismo in Italia penetri un po’ dappertutto. E mi riferisco sia al clericalismo in senso stretto sia al clericalismo laico, sociale.
"Il clericalismo - poco importa se ecclesiastico o laico - è sempre comunque un irrigidimento della comprensione della realtà in un accento presuntuoso o moralistico. Questo irrigidimento si realizza sempre nei momenti di crisi. In quei momenti, infatti, il rischio che si corre più comunemente è sempre quelIo di irrigidirsi nel poco che si sa anziché aprirsi sempre di più alIa ricerca".
In questo senso, il Meeting suggerisce anche una certa posizione del laico all’interno della Chiesa?
"Certamente. Direi che le indicazioni sono fondamentalmente due: la prima è, come detto, l’incontro con la realtà la seconda è l’apertura".
Vorrei insistere sul problema culturale. Al Meeting si fanno grandi incontri con i politici, grandi dibattiti sull’economia, si realizzano anche molti affari concreti, si prendono molte decisioni importanti sul piano fattuale, però l'insistenza generale è sempre di tipo culturale, sulla mentalità più che sul prodotto.
"In uno dei suoi primi scritti, don Giussani definisce la cultura come “la consapevolezza sistematica e critica dell’esperienza”. Il Meeting è un avvenimento culturale: tutti questi fenomeni da te descritti - da quelli politici a quelli economici a quelli intellettuali - vengono inseriti, qui, entro tale coscienza. Per questo si tratta di un evento sostanzialmente culturale, e non solo in determinate tematiche, ma in tutto ciò di cui tratta. Qui si fa cultura anche quando si parla di economia, perché il problema economico viene affrontato attraverso il tentativo di collocarlo dentro la propria esperienza umana, dentro le proprie tensioni, dentro le proprie domande. E questa è un’operazione culturale, in quanto comporta un aumento, una crescita della coscienza personaIe".
Giovedì scorso, intervenendo sul tema della manipolazione cellulare, che garantirebbe un sensibile aumento della durata della vita, hai detto che, oggi, "Ia lotta per la vita coincide con una lotta per la morte". Cosa intendevi dire?
"E' una risposta che ho cercato di dare soprattutto a me stesso. Mi colpisce il fatto che coloro che proclamano la necessità di una libertà assoluta della scienza nella ricerca di rimedi, anche a livello genetico, per malattie senza dubbio molto gravi, siano gli stessi che, poi, lottano a favore dell’eutanasia".
Più precisamente, cosa ti colpisce?
"Quando l’uomo afferma come misura e criterio unicamente se stesso, non può non trasferire in questa affermazione quello che è il suo statuto, ossia di essere limitato e mortale. Questo limite e questa morte permangono, dunque, inevitabilmente dentro la sua pretesa. Viceversa, se l’uomo comincia a comprendere che la vita non gli appartiene, che non se l'è data lui allora tutta la sua esperienza si inserisce in una realtà più grande di lui, incommensurabile, imponderabile, in una parola: il Mistero. Questa coscienza diviene un fattore di apertura, di speranza, di ricerca, di tentato confronto. In ogni caso, non è mai una chiusura. Certo, ci vuol coraggio, perché dobbiamo affidarci a una realtà che non può essere determinata da noi".
Qual è la posizione contraria a quella che hai descritto?
"Credo che la posizione più lontana da questa sia lo schematismo ideologico, ossia il voler racchiudere a tutti i costi il mondo in una misura predeterminata".
Questo però è un pericolo che corriamo tutti, continuamente. Non credo esistano garanzie in proposito. Ho conosciuto marxisti atei molto più aperti di tanti cattolici.
"Lo schematismo ideologico non riguarda tanto l’appartenenza a questo o quello schieramento: riguarda una pretesa, e basta. Noi non abbiamo difficoltà a confrontarci con chiunque abbia idee anche molto lontane dalle nostre...".
... Ma anche vicine...
"Sì: purché queste idee non costituiscano una pretesa a priori, e queste persone siano disposte a una verifica sull’esperienza, non su concetti astratti".
Tu hai detto più volte, in sintonia con il pensiero di Giussani, che il dato antropologico più impressionante a cui assistiamo oggi è il "dissesto dell’io". E' come dire "crisi di valori", sul tipo di quella che si studiava a scuola quando si affrontava il Novecento, o c’è dell’altro?
"A mio parere, il problema fondamentale di oggi è la rottura con la tradizione. Lo si vede dalla conseguenza più macroscopica, che è la crisi educativa. L’educazione non è soltanto la trasmissione di un proprio pensiero, ma la comunicazione di un ideale che si segue, di qualcosa, voglio dire, che ci è stato consegnato - perché vissuto - da chi ci ha preceduto. Quello che manca oggi è la coscienza di questa tradizione, che è ciò di cui siamo fatti, e ciò è particolarmente grave in un Paese come il nostro che era tradizionalmente - seppur ottusamente - cristiano. E dico “cristiano” in senso lato, nel senso crociano, ma anche nel senso più banalmente empirico della parola, tipo, che so "Italiani brava gente”, e via dicendo. Adesso non si sa più cosa sia questo nostro Paese, cosa corrisponda alla parola “italiani”".
Occorre precisare, però. Questa comunicazione di un ideale può essere anche la comunicazione di un principio o valore astratto, anziché - come ne "I Promessi sposi", quando l’innominato si affaccia alla finestra e vede il popolo in cammino - un uomo, ossia una persona in carne e ossa.
"Ci si muove per gli uomini, oddio, ci si può muovere anche per le idee, però le idee o sono a favore degli uomini oppure, se sono soltanto idee, uccidono la vita, umiliano il movimento della vita. Pensa alle grandi visioni, alle grandi utopie di questi ultimi decenni. "La mia generazione ha perso”, canta Giorgio Gaber. Perché ha perso? Perché è una generazione che ha preso le mosse esclusivamente da un’idea".
Riprendendo un’affermazione di mons. Scola, hai detto che la sfida cattolica all’uomo non si gioca sull’immortalità ma sulla resurrezione del corpo. Oggi tutto lo spiritualismo di moda - orientaleggiante, new age, ma spesso anche cattolico - insiste invece sull’immortalità. Dove sta il punto di differenziazione tra queste due posizioni?
Dire resurrezione del corpo significa dire resurrezione dell’io, cioè di me, integralmente: corpo, anima, tutto. Significa che io ti rivedrò, che io ti potrò riabbracciare. Per questo capisco molto bene S. Tommaso, l’apostolo. La sfida gigantesca, e affascinante, non è per l’immortalità, ma è per la totalità dell'uomo, di quest’uomo che sono".