Il Papa e l'esperienza dell'infinito

Carmine Di Martino

È un colpo che risuona potente il messaggio di Benedetto XVI in occasione dell’apertura della XXXIII edizione del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli. Vi si affronta il problema più spinoso e decisivo fra tutti: chi, che cosa è l’uomo? Commentando il titolo del Meeting – La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito –, egli afferma: «Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore. L’uomo è una creatura di Dio». Sono queste le sue prime parole. Precise, dirette. E – oggi – per nulla pacifiche.
Il Papa ne è ben consapevole. Nel messaggio fa i conti in modo aperto con lo scetticismo – fino alla negazione – dell’«uomo moderno e contemporaneo» di fronte a quella «dipendenza» da cui ha tentato in ogni modo di affrancarsi e che viene considerata parte di un retaggio religioso che l’Occidente si starebbe finalmente lasciando alle spalle: «La considerazione dell’uomo come creatura appare “scomoda” poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro, o meglio, a Qualcun altro – non gestibile dall’uomo – che entra a definire in modo essenziale la sua identità». È una fotografia sufficientemente fedele di una coscienza diffusa e delle linee prevalenti della cultura più “accreditata”.
Non ci è possibile ripercorrere tutti i passaggi dello splendido discorso del Papa. Può essere però utile farci un’altra domanda. Che rapporto stabilire con le parole di questo discorso? Si tratta di un contenuto da prendere “a scatola chiusa”, rivolto ai soli credenti, che dunque saranno già e a priori d’accordo con esso? No, non è un messaggio “pio”, bensì un discorso rivolto a interlocutori liberi e coscienti, usciti dallo stato di minorità, pronti a usare la ragione e ad assumere una posizione fondata. Di fronte a questo messaggio non si tratta di prendere partito: esso costituisce una riaffermazione e al tempo stesso una proposta, quasi un invito a un percorso personale di conoscenza, attraverso l’osservazione della propria esperienza, utilizzando fino in fondo la ragione. E questo vale per tutti. Come sarebbe inutile, infatti, ripetere certi contenuti, “credervi”, senza averli mai scoperti, senza avere compiuto un percorso in proprio, senza averli sorpresi come evidenze emergenti all’interno dell’esperienza resa trasparente da una ragione usata in modo adeguato. E come sarebbe irrazionale, dall’altra parte, liquidarli prima ancora di averli sottoposti a un confronto leale con l’osservazione attenta e appassionata della propria esperienza. Allora le affermazioni che si succedono lungo lo sviluppo del messaggio papale divengono altrettante provocazioni a un cammino, così che ognuno possa arrivare a dire: “Se mi attengo ai dati che l’esperienza mi fornisce, io – io, non altri al posto mio – devo riconoscere che...”.
Qualche esempio. È vero o no, che in ogni nostra azione ci troviamo ad avere a che fare con esigenze e desideri senza fondo, con una «tensione incancellabile», una strana «sete di infinito»? «L’uomo, senza saperlo, si protende alla ricerca dell’Infinito». Non è quello che ci succede? Che cosa dice, infatti, l’insaziabilità che caratterizza e tormenta ogni nostra mossa, che conduce perfino a scelte dissennate ed estreme, se non che volenti o nolenti siamo «fatti per l’infinito»? Il rapporto con l’infinito non è aggiunto, è costitutivo del nostro essere e vivere. L’Infinito è segretamente implicato in ogni nostro moto e in ogni accadimento, da esso dipendiamo. E non è forse vero che solo quando «riconosciamo questa dipendenza» noi siamo liberi e critici, irriducibili ai nostri antecedenti storico-biologici e capaci di «sradicare tutte le false promesse» che ci «rendono schiavi»?
Ma lo stesso metodo va usato anche di fronte alle altre affermazioni di Benedetto XVI: ciò che solo rende possibile «all’uomo vivere all’altezza della propria natura» è l’esser diventato carne «dell’Infinito stesso». Dovrò allora riconoscere chi è stato raggiunto dall’avvenimento cristiano e lo ha accolto dalla diversa intensità con cui vive la sua umanità. È questo infatti il modo con cui anche oggi l’uomo scopre la presenza del «Dio infinito diventato carne»: imbattendosi in quella intensità di «realizzazione» umana che ne è il segno. Questo è ciò che la ragione è chiamata qui a registrare. Da quell’incontro si scatena poi un itinerario di domande che sarebbe innaturale soffocare, e che apre alla fede.
Ma che cosa è richiesto per compiere questo percorso? Solo un interesse a se stessi, al proprio compimento umano. «Che importa se guadagni il mondo intero e perdi te stesso?», diceva con frase drammatica Gesù di Nazareth. La distinzione non si fa allora sull’essere “credenti” o “laici”, ma sull’essere o meno interessati a se stessi, e su un uso non ridotto della ragione di fronte a ciò che accade.

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