L'incontro tra cristianesimo e pietas romana
StoriaLa fede nel divino e il rispetto della città dell’uomo. Di questo
era composta la pietas romana diffusa in tutto il mondo. Che i cristiani non
rinnegarono. Anzi. Ne hanno parlato Marta Sordi e Alfredo Valvo
Piace l’Inno delle scolte di Assisi a Marta Sordi, docente emerito di Storia
greca e romana alla Cattolica di Milano. In esso sente ancora l’eco di
quella pietas che - spiega - è insieme venerazione della divinità e
rispetto, cura, difesa della città dell’uomo. È una virtù romana,
che questo popolo ha coltivato e diffuso nel mondo. Il cristianesimo l’ha
trovata lì, bell’e pronta, nel secolo in cui la Storia improvvisamente
maturò come un frutto pieno, sotto la magistratura di Augusto, che ebrei
e latini, cittadini e provinciali, occidentali e orientali percepirono come il
grande lago quieto in cui i destini gridati dai profeti dell’Antico Testamento
nel deserto e sussurrati dalle Sibille negli antri sicani improvvisamente si
compivano.
Teologia della storia
Lo ha ricordato il professore Alfredo Valvo, docente di Storia romana alla Cattolica
di Milano. Alla “pienezza dei tempi” non era bastata la luce abbacinante
del pensiero greco, la ragione ferrea di Socrate e l’incendio di Parmenide: «Il
kérigma appartiene al mondo romano». Cosa mancava, ancora? «La
nostalgia, l’attesa». Mancava il senso drammatico della storia, il
faccia a faccia con il destino. Doveva morire Achille, e anche Ulisse, e doveva
nascere Enea, dice Marta Sordi. «A ben guardare, l’eroe di Virgilio
assomiglia ad Abramo: ciò che lo definisce è la fede nella divinità,
e l’obbedienza al Fato, che per lui non è affatto una cieca necessità,
ma una chiamata divina». Anche Enea esce dalla sua terra in nome di una
promessa. La sua fortitudo non è la ferocia dell’eroe primitivo,
l’ira dei semidei e dei semidemòni ctonii che abitavano i pantheon
delle civiltà preromane: «È una forza controllata, che accetta
l’obbedienza al Destino. In Virgilio c’è l’idea che
il dolore sia un fattore che costruisce la Storia, che nulla nasce senza sacrificio.
Nell’Eneide è già contenuta una vera e propria teologia della
storia».
Trattenere ciò che è buono
I cristiani la trovarono lì, nelle coscienze del popolo più potente
e più avanzato della loro epoca, e non la rinnegarono, assieme a molte
altre cose. San Paolo aveva detto loro: pànta dokimàzete, tò kalòn
katèchete, soppesate bene tutto e non lasciate che vi sfugga tra le dita
ciò che è buono. Come diceva Ambrogio, il cristianesimo non rinnegò nulla
della grande tradizione romana, «tranne la religione», ricorda Marta
Sordi. L’universalità, il superamento del fattore nazionale, etnico,
che Roma già da secoli aveva nei polmoni, san Paolo la soffiò nella
Chiesa nascente come un vento cathòlicos mai calato. Con l’imperatore
Valentiniano I - più che Costantino - e il vescovo Ambrogio il cristianesimo
divenne politicamente romano, rinunciò a essere una forza anarchica, anti-sistema.
Ci penserà poi Agostino a spiegare come e perché le due città,
quella di Dio e quella dell’uomo, non vadano confuse, mettendo in guardia
dai rischi connessi. Ma a questa religione palestinese, che parlò le sue
prime parole in aramaico, il marchio è rimasto attaccato per sempre: il
cristianesimo è “romano”. Tanto che a venti di secoli di distanza
un Papa polacco può mettersi a parlare il dialetto di questa città dicendo
che è il suo. Per dire che quella pietas non è mai morta.