La dura battaglia degli ospedali cattolici
AfricaCome fare affinché in un Paese come l’Uganda ognuno possa essere
curato dignitosamente in ospedale? Il dottor Giusti, da quasi trent’anni
in Africa, ci sta provando,
convincendo il governo che “più società fa bene allo Stato”.
E
proponendo un modello di sussidiarietà là sconosciuto. Con lui
all’incontro del Meeting, tra gli altri,
il vescovo di Gulu, monsignor John Baptist Odama, e il nunzio in Uganda, monsignor
Christophe Pierre
Dopo 16 anni di lavoro in prima linea come medico in Uganda, il dottor Daniele
Giusti, fratello comboniano, partito nel 1978, dovette trasformarsi da camice
bianco in colletto bianco: «Suor Luigina, che amministrava l’ospedale
di Matany, di cui ero appena diventato il “direttore”, venne da me
con una fattura di ventimila dollari per farmaci antitubercolari che dovevamo
pagare e per cui non c’erano i soldi. E mi disse anche che era compito
mio trovarli. A poco a poco ho cominciato a interessarmi di conti e bilanci ed
in pochi anni mi diventò chiaro che quel gioiello di ospedale stava andando
verso la bancarotta.
Analisi di gestione
Certo, gli aiuti continuavano, ma non tenevano il passo con i costi. Così dovevamo
dipendere sempre di più da quello che i pazienti potevano pagare. In Uganda
non esiste il sistema del terzo pagante, per cui chi paga i conti è un
mix tra pazienti, Stato, donatori e carità. A quel tempo lo Stato non
finanziava gli ospedali missionari. Per cui l’equazione aveva due input:
soldi dei pazienti e soldi della carità. E mentre i primi non aumentavano,
i secondi diminuivano». Questo non accadeva solo a Matany, ma in tutti
gli ospedali e i dispensari, cattolici o protestanti. Il dottor Giusti e i suoi
colleghi nel 1996 misero in chiaro che tra Stato e privato nella Sanità ugandese,
esisteva un “privato sociale”, definito private-not-for-profit sanitario.
Il Pnfp sanitario in Uganda è soprattutto frutto del lavoro dei cristiani
(l’80-90% dei servizi sono affiliati a denominazioni cristiane - le strutture
cattoliche sono la componente più grossa del settore). «Ma anche
questo Pnfp sanitario - ha sottolineato Giusti - ha dei problemi legati alla
scarsa capacità gestionale: gestire un’opera non profit, che vuole
servire chi ha pochi o non ha soldi, è una sfida che richiede una certa
acutezza di analisi e di gestione. Il rischio è che l’opera vada
in bancarotta, oppure che prenda una deriva commerciale (dare i servizi solo
a chi può pagarli e pagarli bene). Alla metà degli anni Novanta
questo settore era in una crisi profonda, in bilico tra queste due derive. Il
Pnfp sanitario doveva chiedere un aiuto allo Stato, ma doveva anche convincere
il Ministro della Sanità che si trattava di qualcosa di conveniente. E
non bastava che fosse conveniente a noi come gestori: doveva essere conveniente
per la gente e per il Governo». Il Ministro della Sanità capì al
volo: il Governo iniziò a dare un piccolo contributo del 5%. Oggi contribuisce
al 30%, secondo il principio di sussidiarietà.
Sviluppare gli strumenti
Ma la battaglia di Giusti e dell’Uganda Catholic Medical Bureau è tuttora
in corso. «Il principio di sussidiarietà, con le sue tre convenienze, è ancora
lontano da diventare una “cultura” che informa coerentemente il processo
decisionale del Governo. Noi, Chiesa, abbiamo una grande forza di presenza di
servizio, ma non siamo ancora riusciti a sviluppare gli strumenti che difendano
questa presenza nell’arena politica. Lo sappiamo che più Società fa
bene allo Stato - direi io, fa bene alla gente per prima cosa, ed è conveniente
per lo Stato. Abbiamo provato a cambiare le “regole del gioco” in
Uganda, e in qualche modo ci siamo riusciti, tra luci ed ombre. L’esperienza
degli ospedali cattolici in Uganda - ha concluso Giusti - somiglia molto a quella
di una barchetta che naviga in acque difficili e spesso tempestose. Ci sono dei
momenti di calma. In altri le nuvole nascondono l’approdo e le onde sono
alte e minacciose. Ma questa barca è stata voluta per portare Gesù alla
persona dell’ammalato. Il nostro compito, il mio compito, è di affrontare
tutto a partire da questa certezza e dal fatto che noi sappiamo che Lui ha già vinto
la tempesta. Di tanto in tanto dobbiamo riaggiustare la rotta, qualche volta
dobbiamo spiegare le vele e talvolta ammainarle: questo è il nostro lavoro.
Ma sappiamo che, se la barca è fedele al suo compito, continuerà a
navigare. Per cui lavoriamo in pace». Avsi da 3 anni sostiene con un progetto
di gestione - dati il lavoro dell’Ucmb. L’associazione Medicina e
Persona, che insieme ad Avsi ha promosso l’incontro al Meeting, ha lanciato
in tutti gli ospedali italiani l’iniziativa “Un’ora di lavoro
che cambia la vita”, di cui si trovano i dettagli sul sito www.medicinaepersona.org
per contribuire all’impegno di Avsi. Ha partecipato all’incontro
anche il coraggioso vescovo di Gulu, John Baptist Odama, che ha citato l’enciclica
di Giovanni Paolo II Salvifici doloris: «“Ci siamo inchinati davanti
alla sofferenza con tutta la profondità della nostra fede nella redenzione”.
La Chiesa, i cristiani, sono coinvolti nella sanità perché Gesù curava
gli ammalati. L’enorme rilevanza delle strutture sanitarie della mia diocesi è magnificata
dal fatto che i nostri ospedali sono diventati, negli ultimi anni, un rifugio
per migliaia di persone, che di notte si sentono protette dagli assalti dei ribelli
del Lord Resistance Army».
Notti all’addiaccio
Monsignor Odama, in più di una occasione, ha condiviso la notte all’addiaccio
all’interno di un ospedale con la sua gente. Il nunzio apostolico in Uganda,
monsignor Christophe Pierre, ha sintetizzato: «Anche se il Governo ugandese
o qualunque altro potere di questo mondo si potesse fare interamente carico del
bisogno di salute della nostra gente, noi saremmo ancora coinvolti con gli ammalati
perché lo faceva Gesù».