La globalizzazione sfida i cristiani

Giorgio Vittadini

Il dibattito sulla globalizzazione appare viziato da un equivoco e da una falsificazione. L’antesignano della globalizzazione fu quel «governo mondiale», salutato all’indomani della caduta del muro di Berlino e che, con la fine del comunismo, avrebbe dovuto inaugurare una nuova epoca di pace e di benessere nell’assenza di contrapposizioni e di blocchi ideologici.
Non è stato così. Dopo la caduta del muro sono aumentate le guerre tra gli stati del Terzo mondo, multinazionali e stati ricchi si sono scatenati per accaparrarsi le mate-rie prime, sono diminuiti i fondi per la cooperazione, sono aumentati i genocidi, l’instabilità in aree cruciali è concreta minaccia al villaggio globale in ogni suo punto.
Nessuno oggi può ragionevolmente credere che la crisi palestinese o l’instabilità nei Balcani siano affari regionali. Più che un luogo di strapotere, la globalizzazione appare dunque come il luogo di una debolezza causata dall’assenza di un contraddittorio all’espandersi del sistema statunitense. In questo senso sia la globalizzazione sia l’antiglobalizzazione sono un fenomeno tutto interno al sistema statunitense che mentre si propone, cerca corretivi e limiti a se stesso.
Questo è il G8, figlio di una debolezza piuttosto che di uno strapotere. Se questo è l’equivoco, la falsificazione si gioca sui dati messi in campo che spesso appaiono contradditori.
L’evidenza della diseguaglianza non corrisponde ai nuovi dati sul gap tra popolazione ricca e povera, come dimostra la crescita di Cina e India.
Ma sarebbe errato ridurre la sfida che pone la globalizzazione a mero fatto economico.
La sfida in realtà è innanzitutto culturale e consiste nella implicita tendenza a rendere l’uomo, da sempre capace di desiderio, ricerca e esperienza della verità a ingranaggio senz’anima di un enorme meccanismo economico. Si subisce passivamente questa concezione, oppure si vive una risposta che porti con sé una concezione dell’io altrettanto totalizzante.
In questo senso, per il cristiano, la globalizzazione, oltre che una sfida è un’occasione. L’incontro con una Presenza eccezionale che corrisponde all’esigenza di verità, giustizia, bellezza, la certezza di una positività e di un compito per la sua esistenza, l’appartenenza a un popolo portatore di questo significato nella storia ha reso ogni cristiano povero o ricco in ogni epoca capace di costruzione e speranza non vana. Di fronte a ogni globalizzazione questa certezza l’ha reso capace di presenza e condivisione delle domande, delle attese, dei bisogni di altri uomini. I «poveri della terra» che l’hanno incontrato sono stati educati al bene più prezioso, la coscienza di essere libero, responsabile del proprio destino da subito, desideroso di migliorare le condizioni di vita sue e dei suoi cari.
Così avvenne con le «reduciones» dei gesuiti, così è awenuto con l’esperienza di Madre Teresa nei quartieri di Calcutta, così avviene oggi nelle favelas brasiliane, dove laici e sacerdoti condividono con i poveri la loro situazione e rendono vivibili persino delle bidonvilles, così avviene in Africa di fronte alla tragedia di guerre e di malattie.
Se il sistema unico mondiale, se la globalizzazione ha la pretesa idolatrica di porsi al centro del cuore dell’uomo, di definire l’uomo nella consapevolezza che ha di sé, unita alla pretesa di dare volto a ogni sua espressività lì si giocherà la partita. Lì qualcuno andrà a cercare gli uomini. Perché, come ha ricordato monsignor Luigi Giussani: «Quando l’impegno con il bisogno non rimane pura occasione di reazione compassionevole, ma diventa carità, cioè coscienza di appartenenza a una unità più grande, imitazione nel tempo del mistero infinito della misericordia di Dio, allora l’uomo diviene per l’altro uomo compagno di cammino. Diventa un cittadino nuovo».
D’altro canto è interessante notare, parafrasando il Dawson, che alle sue origini, l’insorgere del cristianesimo nel mondo si pone come un fenomeno «globalizzante». Quando San Paolo, obbedendo a un avvertimento ricevuto in sogno, s’imbarcò a Troade, nell’anno 49 dell’era cristiana e arrivò a Filippi, rivoluzionò il corso della storia e segnò l’inizio di una nuova era nella storia del mondo e, soprattutto, dell’Occidente. In un mondo statico, introdusse un fenomeno storico totalmente nuovo, mai visto prima e assolutamente sconosciuto: la missione, ovvero l’idea che una proposta, una risposta fosse adeguata ai destini di ogni uomo sotto qualsiasi cielo, condizione e latitudine si trovassero.
Così il cristianesimo si affermò nel mondo a ondate successive nell’incontro di sempre nuovi popoli, finchè Paolo e Pietro non conclusero la propria avventura terrena a Roma, nel cuore dell’impero. Nel cuore cioè del mondo globalizzato e globalizzante di allora. L’Europa è nata da questa avventura sia nella coscienza della rinascita medievale dopo le barbarie, sia nell’intuizione della sua unità politica moderna. E nella sua essenza il farsi strada nella storia della libertà, dell’universalità e del rispetto della diversità. Anche solo nella storia recente abbiamo un’Europa cui guardare, l’Europa voluta da De Gasperi, da Adenauer, da Schumann.
L’Europa concepita come superamento dell’egoismo di stati e come solidarietà verso la parte più povera del mondo. Non mancano quindi personalmente e politicamente gli spunti per rispondere a questa sfida. Non innanzitutto a Seattle, ma ovunque siamo con un desiderio non ridotto.